«Il ponte tra Calabria e Sicilia sarà il ponte sospeso più lungo al mondo, una eccellenza dell’ingegneria italiana»
Con questo slogan il Ministero per le Infrastrutture e Trasporti presentava, per l’ennesima volta, il progetto del ponte sullo Stretto di Messina, una vecchia idea che affonda le radici nel 1840. Progetto che è risultato divisivo sin dalle sue origini e oggetto di proteste da parte della popolazione locale e parte della comunità scientifica, sia per il suo impatto ambientale su uno dei panorami più belli d’Italia che per i rischi relativi alla geologia dell’area.
Infatti, dal 28 dicembre 1908, quando un terremoto di magnitudo 7.1 e relativo tsunami distrussero le città di Reggio Calabria e Messina provocando la morte di circa 120.000 persone, lo Stretto di Messina è considerato da un punto di vista sismico una delle aree a maggior rischio dell’intera regione mediterranea.
Ponte sullo Stretto di Messina e geologia
Popolazione e comunità scientifica hanno sollevato alcuni dubbi legati a
- il potenziale impatto di un terremoto di simile o maggiore magnitudo di quanto registrato nel 1908 sul ponte, Reggio Calabria e Messina
- la mancanza nell’area di dati recenti acquisiti con tecnologie avanzate per meglio comprendere la geometria, attività ed evoluzione di un assetto tettonico molto complesso, e l’organizzazione stratigrafica e proprietà meccanica delle rocce.
Le risposte dei sostenitori dell’opera alla possibilità del verificarsi nell’area di un terremoto (impossibile da predire ma statisticamente possibile) sono
- il progetto del ponte considera questo aspetto
- il ponte sarà capace di resistere a terremoti con magnitudo maggiore di quanto registrato nel 1908.
Gli stessi dimenticano però di riportare che ad oggi i materiali necessari per la costruzione del ponte come previsto dal progetto preliminare, e che resista agli stress normali ed eccezionali richiesti da un ponte di tale portata, non esistono ancora.
Inoltre, a seguito del terremoto del 1908, le città di Reggio Calabria e Messina furono ricostruite senza particolare attenzione nel seguire procedure antisismiche. Questo significa che anche se gli ingegneri riuscissero a costruire un ponte capace di resistere a forti terremoti, il risultato sarebbe di avere una bellissima struttura ingegneristica che collegherebbe due aree completamente distrutte.
Tanta propaganda, pochi fondi per la ricerca
Allo stesso tempo, non è chiaro quali e quante strutture a supporto del ponte sono state pensate e quale possa essere l’impatto delle stesse sul territorio e sulle comunità che ci vivono.
Dove e quanto cemento sarebbe previsto?
Quale l’impatto su un precario assetto idrogeologico già caratterizzato da fenomeni franosi?
Molto si parla in modo propagandistico del ponte sensu stricto. Poco o niente si dice del suo impatto sulle comunità locali che nelle aree interessate dal ponte vivono.
Non molta diversa la storia rispetto alla mancanza di fondi destinati alla ricerca per la comprensione della geologia a terra, dove il ponte dovrebbe essere ancorato, ed a mare.
Ad oggi, con l’Italia che destina solo l’1.35% del suo PIL alla ricerca scientifica (circa la metà della media degli altri stati europei) non deve sorprendere se gli eccellenti studi di ricerca pubblicati nell’area si basino su dati limitati che lasciano importanti domande ancora aperte.
Per esempio, non c’è ancora consenso nella comunità scientifica su quale faglia sia stata responsabile del terremoto del 1908.
Una foglia di fico?
Per un progetto così ambizioso, prima di prendere qualsiasi tipo di impegno verso la costruzione del ponte e spendere soldi che si potrebbero investire diversamente (si stima che ad oggi la spesa ammonti già a circa 300 milioni di Euro, per un costo totale dell’opera di 14,6 miliardi di Euro), ci si aspetterebbe quindi un grosso investimento di risorse e fondi per finanziare progetti di ricerca e l’acquisizione di dati utili a comprendere il contesto geologico e ambientale dentro il quale si voglia costruire l’opera.
Il recente annuncio dell’inizio dei lavori relativo alla realizzazione del foglio Villa San Giovanni come parte del progetto nazionale CARG è sicuramente una notizia positiva che contribuirà ad aumentare le conoscenze dell’area. L’uso di quello che dovrebbe essere un aggiornamento regolare delle conoscenze geologiche del territorio atteso da decenni e sempre posticipato, però, potrebbe rappresentare una foglia di fico per distrarre l’attenzione dalla mancanza di studi specifici.
Inoltre, la recente notizia che Sicilia e Calabria dovranno aumentare il loro contributo finanziario per la costruzione del ponte, senza che lo stesso sia stato discusso e approvato dalle regioni, solleva qualche dubbio sulla sostenibilità finanziaria dell’opera.
Stretto di Messina e Vajont: il ponte come la diga?
Se guardiamo al recente passato, l’Italia ha già intrapreso un simile ambizioso progetto con la costruzione della diga del Vajont. Considerato come si è drammaticamente concluso per la popolazione locale e il suo territorio, le similitudini tra i due progetti non sono confortanti.
Il progetto della diga del Vajont risale al 1920. La costruirono tra il 1957 e il 1960 per realizzare una riserva di acqua da usare per supportare la produzione di elettricità.
Il 9 ottobre 1963 una mega frana causò uno tsunami che produsse grosse inondazioni e distruzione dei paesi di Erto e Casso posizionati sulle rive del lago e di Longarone e altri paesi lungo la valle del Piave. Morirono circa 2.000 persone. La diga rimase intatta.
La si può osservare ancora oggi, a testimonianza che da un punto di vista ingegneristico il lavoro fu progettato ed eseguito correttamente. La ferita inferta al territorio e alla popolazione locale, però, ne azzerano il presunto valore.
Indagini post disastro hanno evidenziato come gli indicatori geologici per prevedere l’instabilità del fianco della montagna erano già presenti prima della frana.
La mancanza di studi specifici nelle fasi preliminari e la mancanza di coinvolgimento dei geologi durante la realizzazione del progetto, con tutte le decisioni chiave lasciate in mano agli ingegneri, crearono le perfette condizioni per il disastro.
Bene, bravi… bis?
Ora guardiamo a come le autorità nazionali presentarono il progetto della Diga del Vajont nel 1943: La più alta diga ad arco al mondo. Il biglietto da visita per il lavoro italiano all’estero. Per il ponte sullo Stretto di Messina assistiamo alla riesumazione dello stesso tipo di propaganda che usarono per convincere la popolazione 80 anni fa ad accettare un’opera faraonica.
Antonio Gramsci diceva che «la Storia insegna, ma non ha scolari». Speriamo che questa citazione non sia valida per il ponte sullo Stretto di Messina. E che questo progetto non si concluda con un bellissimo e intatto ponte che collega due città fantasma.