Non è vero che il Parlamento non si occupi del Sud, non discuta della questione meridionale, non vari provvedimenti per le nostre regioni. Parlamento in quanto sede legislativa e di indirizzo per il governo, intendo, richiamando alla memoria mozioni che indicavano e impegnavano negli ultimi decenni l’Esecutivo verso politiche attive nel campo dell’occupazione, delle infrastrutture, del riequilibrio territoriale.
Il Sud dai partiti di massa al Pnrr
In molte di esse – spulciando gli archivi – tenere insieme nelle premesse motivi storici, antichi e recenti, condizioni locali e interrelati ai diversi contesti, indicare direzioni lungo le quali legiferare fa trasparire momenti di vera e propria sofferenza, paziente lavorio di mediazione e di equilibrio: malavita organizzata, ritardi strutturali, vocazioni locali, collegamenti, ambiente, energia… da dove partire, quali priorità elencare? Oggi con Il PNNR in fase di gestazione e una ripresa del dibattito sul federalismo asimmetrico è opportuno riprendere le fila di un discorso magari sopito ma sempre attuale.
Un tempo, quando c’erano i grandi partiti di massa, ideologizzati e a respiro nazionale, parlare e decidere per il Paese significava avere una visione unitaria. Comportava un patto di solidarietà e di politiche territoriali fra loro integrate e compatibili. Patto e politiche che avevano per subfondo due capisaldi: Nord produttore e Sud consumatore uno, l’altro era l’assistenza verso il Sud.
Due corollari
Mi si passerà lo schematismo anche brutale se si vuole, ma che può essere funzionale, nella sua icasticità, a introdurre una serie di corollari.
Il primo è quello dei massicci esodi migratori di calabresi, lucani, siciliani… verso il triangolo industriale, per non dire verso il Nord Europa e le Americhe, dove furono parte ineludibile della possente crescita di quei territori.
Il secondo corollario può sintetizzassi negli interventi mirati verso il Sud, primo fra tutti la Cassa per il Mezzogiorno. Cassa nata con l’esplicita missione di ammodernare le terre del Sud grazie a poderosi interventi di infrastrutturazione di carattere fisico, ma prodromici a insediamenti necessari alla crescita economica e nel contempo necessari a garantire standard di civiltà e modernità.
Cosa fare del Sud col Pnrr
Erano tempi in cui il dibattito fra le forze politiche si rifaceva, con Rossi Doria, alla polpa e all’osso, paradigmatici del puntare sull’industria o sull’agricoltura: un dualismo oggi superato da altre bipolarità, ben altre.
Non può essere questa la sede idonea a tratteggiare i caratteri salienti di quella stagione, forse fin troppo drasticamente liquidata e indubbiamente portatrice di forti elementi di positività poi affogati nel clientelismo, nella spartizione partitica, nella incompletezza di opere al di fuori di un disegno organico che prefigurasse il refrain poi più volte recitato: Che farne, del Sud.
Nei partiti, nel Pci in particolare, c’era la Commissione Mezzogiorno, struttura sempre guidata da prestigiosi rappresentanti di statura nazionale che fungeva da camera di compensazione e di sintesi, di valutazione, analisi e proposta, sempre e comunque dentro una cornice di respiro e di salvaguardia dell’unità nazionale.
Con il nascere delle Regioni prima e della Unione Europea poi si assiste a un cambiamento di scenario, accompagnato da quel fenomeno che qualcuno chiosò: fine dell’intervento straordinario e assenza di interventi ordinari.
Regioni, Lega Nord e nuovi scenari
Le Regioni invece di configurarsi come elemento di sussidiarietà hanno via via accresciuto vizi di deficit di governo e contrapposizione geopolitica. La UE ha varato misure e risorse per le Aree in ritardo di sviluppo raramente recepite e fatte proprie dagli Stati membri, con i risaputi sprechi, fondi non spesi, occasioni perdute.

Il nascere della Lega Nord, il pietismo e il neoborbonismo del Sud hanno costituito le pietre miliari dell’oggi. Pietre cui le sciagurate modifiche al Titolo V della Costituzione hanno posto il suggello, con le irricevibili proposte di federalismo sghembo buono solo a distruggere il Paese e a ingenerare darwinianamente distorsioni destrutturanti.
Per un meridionalismo responsabile
C’è un libro di qualche anno fa, scritto quando tranne Giuseppe Galasso e pochi altri tenevano faticosamente in alto la bandiera di un meridionalismo responsabile, non straccione né intriso di rimpianti rivendicazionisti. L’autore è Emanuele Felice, il titolo Perché il Sud è rimasto indietro. È di circa dieci anni fa e contiene analisi e ragionamenti tuttora non smentiti né smentibili. Affronta di petto la questione delle classi dirigenti. Tutte, non solo quelle politiche. Demolisce con scientificità di metodo qualsiasi tentazione neoborbonica, apre scenari improntati alla responsabilità e alla coesione territoriale.
Oggi, in tempi di guerra, di Covid e di Pnnr, rispetto al quale ci si azzanna sulla quota del quaranta per cento da assicurare al Sud senza una cornice di riferimento geopolitico e progettuale di un’Europa alla ricerca di sé in un Mediterraneo baricentro di processi di pace e di crescita, potrebbe essere di qualche utilità ritornare a vecchie pagine. Quelle in cui si affermava che l’Italia sarà quello che il Sud sarà, depurandole, sia chiaro, di un’impostazione massicciamente agraria e ponendo il Sud, la Calabria, sul versante del terziario, meglio del terziario avanzato.
Massimo Veltri
Ex senatore della Repubblica e professore ordinario all’Unical