Fratelli nella morte, l’umanità da ritrovare dopo la strage di Cutro

In quelle bare ci siamo noi, annegati tra le onde della disumanità. Vittime e complici di un sistema alla deriva dove l'egoismo si incarna nella difesa dei confini, nella separazione tra ciò che è di qua da quel che c'è di là

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Nel PalaMilone ci riscopriamo fragili e impotenti. Una dimensione collettiva e allo stesso tempo intima. La riscoperta agghiacciante dell’umano in una vicenda tutta disumana. È come se il pellegrinaggio continuo, i fiori, gli orsacchiotti lasciati lungo le grate esterne, i silenzi volessero restituire un senso di giustizia a ciò che è accaduto a Steccato di Cutro, alle parole fuori posto, a ciò che forse non riusciremo mai a scoprire di quella notte.

Non è pietismo, non è un lavarsi la coscienza davanti alla morte. Sembra più una inconscia riscoperta di fratellanza e solidarietà. Una ritrovata identità mediterranea, un’appartenenza a un mare che unisce e rende sorelle e fratelli. Quello stesso mare che abbiamo reso una muraglia con le nostre politiche identitarie.
Si percepiscono lontani gli slogan di questi giorni: «sono troppi», «perché partono», «non possiamo accoglierli tutti».

Cutro e il PalaMilone come Sarajevo o Kabul

È il tempo del silenzio, della mancanza di parola, della riflessione. Si entra con delle certezze, si esce svuotati alla vista di quelle bare poste sul campo da gioco del palazzetto. È lo stesso contrasto che si afferra a Sarajevo, a Buenos Aires, a Kabul. Campi di calcio trasformati in luoghi di martirio. Gli spalti vuoti di fronte restituiscono quel senso assordante di silenzio e tristezza. Si dovrebbe esultare su quei seggiolini, oggi si rabbrividisce davanti a tutta la scena.

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La bara di una delle bambine morte

Si fa in tempo anche a scorgere qualche familiare che arriva accompagnato dai volontari della Croce Rossa. È una donna avvolta nel velo e si muove alla ricerca di un nome posto sul legno. Per altri invece c’è solo un numero, un identificativo. Altri parenti arrivati da Londra e dal Nord Europa attendono le ricerche, la restituzione di un corpo. Non è una speranza di vita ma una restituzione di dignità. Una piccola particella di giustizia in un mare di ingiustizia. 

In quelle bare ci siamo noi, annegati tra le onde della disumanità. Vittime e complici di un sistema alla deriva dove l’egoismo si incarna nella difesa dei confini, nella separazione tra ciò che è di qua e da quel che c’è di là. È la fortezza Europa che si sgretola giorno dopo giorno. Sabato notte l’abbiamo vista sgretolarsi impietosa sulle nostre coste, sulle sconosciute spiagge di Steccato di Cutro, tra soccorsi mai arrivati, nella desolazione e la solitudine di una rotta che da Est taglia verso Ovest, nel frastuono del sabato italiano.

Al di là del mare

È contrasto anche qui. Le urla delle mamme alla ricerca dei figli dispersi si mischia alle ultime note dei locali della movida delle nostre città. L’ora è la stessa. Quella stessa ora in cui forte è la consapevolezza dell’essere nati dalla parte fortunata del mare. E allora perché sprecare parole sulla necessità di partire? Di cercarsi un futuro migliore? Perché non tacere? 

L’uscita dal PalaMilone è solo la necessità di un abbraccio. La consapevolezza che girarsi dall’altra parte non può diventare un imperativo, anzi il contrario.
«Non si può andare avanti così», dice qualcuno. È il momento della denuncia.
È il momento delle responsabilità altrimenti ci rimarrà un’altra strage da ricordare tra le occasioni perdute in cui avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.

Andrea Bevacqua
Docente e attivista

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