La Liberazione che divide e il pontefice rivoluzionario

La concomitanza tra l'anniversario della vittoria sul nazifascismo e la scomparsa di Bergoglio fa riflettere sulla necessità di anteporre, oggi più che mai, il dialogo allo scontro

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Sostantivo femminile che fa riferimento alla restituzione o alla riconquista della libertà.
Aldilà del vocabolario, per noi italiani il termine Liberazione evoca l’evento fondante quel Sistema Paese che, al netto di limiti, sviamenti e storpiature, da ottant’anni a questa parte ci contiene. Perché uso il termine contenere? Per sottolineare la stasi che ci ammorba, come cittadini e come collettività, pure scontenti, per quanto si dispiega sotto sguardi sempre meno partecipi, specie in occasioni di festività che, per aberrazione dei tempi, sono divenute divisive.

Perché la Liberazione divide?

Il 25 aprile 1945 è un giorno fondamentale nella storia del nostro Paese, perché si proclama la fine della guerra e la liberazione dal nazifascismo. Una data simbolo, da concepirsi quale culmine di un percorso sofferto e battagliero, ma soprattutto condiviso, svilita per un gioco dei ruoli tristemente interpretato da una classe dirigente che pratica sempre meno la credibilità e il rigore. Sta di fatto che, i sei lunghi anni di orrori e sofferenze indicibili per l’umanità, per noi italiani trovano una sintesi (virtuosa) in quel 25 aprile da ormai 80 anni.

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Meloni osserva Mattarella durante le celebrazioni del 25 aprile

Ogni anno, in questo periodo, ho modo di confrontarmi con chi, di contro, non gli riconosce importanza alcuna. Dato che il numero dei detrattori del 25 aprile aumenta col passare degli anni, risulta riduttivo addebitare questa posizione (evidentemente ideologica) alla mera ignoranza. Più che riduttivo, ingenuo. C’è qualcosa che ha a che fare con la narrazione temo, e con una faziosità fine a se stessa che non ha nulla a che vedere con un confronto costruttivo.

Liberazione e rivoluzione

Nel tentativo di comprendere la contronarrazione, volta a svilire le gesta storiche patrimonio di tutti gli italiani, quest’anno mi concedo una riflessione suggeritami dalla Pasqua Alta. Credo di poter dire, senza offendere nessuno, che Pasqua è la Liberazione dei Cristiani. In entrambi i casi si tratta di eventi che hanno a che fare con il concetto di rivoluzione, come mutamento, non automatico, dell’ordine costituito.

Le rivoluzioni si fanno per cambiare ciò che scontenta agendo una trasformazione percepita come necessaria e migliorativa, giusto? Le fanno le collettività, le quali, hanno sempre dei leader che se ne fanno interpreti, divenendone icone nei casi più fortunati. Le rivoluzioni richiedono (anche) fede, a prescindere dalla quale non si avrebbe il coraggio e l’energia per opporsi allo status quo. La fiducia nel buon esito della Rivoluzione è deposta nei leader che la proclamano, e dipende, non poco, proprio dal modo in cui questa viene annunciata.

Il Cristo di Faber

Nel 1968 in tutto il mondo andava in scena il malcontento generale per uno stato di cose che vedeva scontenta la massa della gente comune, e si credeva di poter volgere al meglio. In quegli anni, oltre ai moti di piazza, furono non pochi i moti intellettuali, cioè, i moti di pensiero che ne suggellarono l’humus, motivandolo nel suo dispiegarsi.
Negli stessi anni, esattamente nel 1970, Fabrizio De Andrè pubblicava il suo album più rivoluzionario, più che per i contenuti, per la tempistica. La buona novella ha ad oggetto gli episodi della vita di Cristo in una visione che pone l’enfasi su un’umanità che le sacre scritture ufficiali hanno sacrificato a vantaggio della venerazione.

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La copertina dell’album di Faber

L’atto rivoluzionario di De Andrè consiste nel cambio di prospettiva funzionale ad una nuova narrazione. De Andrè coglie nel messaggio di Cristo qualcosa di assai rivoluzionario, in linea con le istanze di inclusione sociale e pari opportunità che si affermavano in quegli anni. Non di meno in una scelta argomentale che denota il non allineamento ai paradigmi dell’epoca, che è un elogio senza precedenti al libero arbitrio, misura e paradigma della Rivoluzione Cristiana.
Come i sessantottini – che lo criticarono malamente – Fabrizio De Andrè è animato dalla voglia di favorire un’evoluzione dello stato delle cose, cui sa essere propedeutico un approccio nuovo, un cambio di mentalità, simile a quello che caratterizza il Nuovo Testamento.

Cambiare le regole

In beffa al potere, che opprime gli ultimi, Cristo professa il perdono e la misericordia, ponendosi ad esempio per quelli che, in ogni tempo, vogliano conseguire medesimi cambiamenti di rotta sociale. Da occhio per occhio a porgi l’altra guancia il passo non è breve, l’intellettuale genovese lo sa, come sa che c’è bisogno di tempo affinché chi pretende di cambiare il mondo lo comprenda.

Domandiamoci ora qual è l’elemento rivoluzionario nell’enunciazione di Cristo, se non l’aver elevato gli ultimi a primi, la povertà a virtù e l’umiltà ad arma di difesa contro l‘arroganza del potere? Forse capiremo che per incidere sul presente dobbiamo cambiare le regole, non subire quelle prestabilite da chi ha tutto l’interesse a praticare esercizi di rievocazione gattopardiana!
La politica, come la religione, ha bisogno di seguaci e di consenso.

Mentre assistiamo al dispiegarsi di tutta una serie di crisi, tra cui, quella della Rappresentanza, interroghiamoci sulla relazione tra questa e la (perdita di) fiducia. La popolarità resta uno degli attributi imprescindibili della leadership, ma che tipo di popolarità? I poveri cristi di oggi potrebbero pur credere a chi gli promette il paradiso, ammesso che qualcuno sia ancora capace di mostrare loro il volto più umano della politica, quello cioè che condivide la medesima natura dei suoi sostenitori. Una natura profondamente umana, che sappia interpretare la reciprocità.

Il messaggio di Bergoglio

Le Rivoluzioni hanno dunque a che fare con le narrazioni che, funzionano solo se autentiche. Lo ha dimostrato un ottantenne passato a miglior vita a cavallo tra la Pasqua e la Liberazione.
Papa Bergoglio ha rinnovato l’immagine della Chiesa perché ha cambiato parole e sguardo sul mondo e si è messo dalla parte degli ultimi sin dalla scelta di darsi il nome del Poverello d’Assisi.

Papa Francesco celebra la messa durante la sua visita a Cassano, nel 2014

In questo frangente storico, costellato da conflitti e divisioni fratricide, facciamo nostro il messaggio di chi ha saputo concentrare l’attenzione sugli oppressi, tra cui le donne di ogni tempo, e saremo certi di non sbagliare nel nostro percorso di liberazione, che passa per la mediazione, ad ogni livello, specie in quello geopolitico che oggi manca di visioni umanisticamente propositive.

Dialogo, non scontro

Risulterà forse pretenzioso questo punto di vista, ma assistendo al teatrino indegno dei potenti della terra che si litigano la scena, incuranti della sorte dei popoli, veri destinatari di conflitti mal gestiti, oltre che anacronistici, l’attenzione che si è deciso di riservare all’Area più controversa del globo – qual è la sponda Sud del Mediterraneo – e al gruppo sociale più sottomesso di sempre – quali le donne – restituisce un’inattesa fierezza, quella conseguente le scelte non convenzionali, emulative di chi ha anteposto le ragioni del dialogo, a quelle dello scontro, non arrendendosi all’odio risultando, 2000 anni fa come oggi, rivoluzionario, consapevole dello spirito del tempo che pure si prende la briga di criticare.

Come in questo lucido monito che, attraverso un linguaggio che non lascia spazio a troppe interpretazioni, chiede di elevare a norma morale la resistenza a strutture sociali alienanti: «L’algoritmo all’opera nel mondo digitale dimostra che i nostri pensieri e le decisioni della nostra volontà sono molto più standard di quanto potremmo pensare. Sono facilmente prevedibili e manipolabili. Non così il cuore». (Enciclica Dilexit Nos – 24 ottobre 2024)

Manuela Vena

Presidente Associazione Culturale Fidem
Membro del tavolo di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale su donne, pace e sicurezza

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