Attorno al 25 Aprile c’è una antica e proficua pratica del “chiagni e fotti”, esercitata con successo dai fascisti prima e dagli epigoni del Msi che oggi governano provvisoriamente il Paese. È la retorica “dei vinti e dei vincitori”. I primi dovrebbero essere i tiranni che avevano trascinato l’Italia nel baratro della dittatura e della guerra. I secondi, i partigiani che quella tirannia l’avevano sconfitta. Non ci sono dubbi che a vincere fu la democrazia. Ma immaginare i fascisti come vittime condannate all’oblio e alla marginalità sociale è quanto di più lontano dalla storia ci possa essere.
La paura dei comunisti
Il 25 Aprile non è il giorno della liberazione d’Italia, ma la data scelta dal Cln per dare inizio all’insurrezione in tutto il territorio nazionale ancora occupato dai nazifascisti. Un momento di forte unità nazionale, quindi. Invece, ancora oggi appare come una data divisiva, più volte attaccata sul piano revisionistico e minacciata di cancellazione. Le cause di tanta avversione affondano le loro radici nell’anticomunismo potente che attraversò l’Italia nel primissimo Dopoguerra e a lungo negli anni successivi, malgrado il Pci di Togliatti avesse formalmente scelto una strada tutt’altro che insurrezionale, impegnandosi a sostenere la comune causa antifascista senza volerla egemonizzare, pur potendolo fare, considerata la massiccia presenza di partigiani comunisti. Anche sul piano culturale, non solo propriamente politico e strategico, le azioni dei partigiani nella narrazione del Pci erano gesti legati alla liberazione dal tiranno, non finalizzati alla lotta di classe.
I fascisti riprendono i loro posti
Tutto questo non bastò. E il nuovo Stato, che pure il Pci aveva grandemente contribuito a far nascere con il coraggio e il sacrificio di moltissimi, conservava nelle sue viscere proprio quei fascisti che con banale trasformismo avevano ripreso i loro posti nella polizia e nella magistratura. Va da sé infatti che la persecuzione a carico dei capi partigiani all’indomani della fine della guerra non può essere separata dalla composizione della classe egemone di allora. La stessa che spesso aveva orrendi scheletri da far dimenticare, anche grazie ad apparati dello Stato che erano colpevolmente scampati a una adeguata e necessaria epurazione. Del resto dopo l’amnistia togliattiana i carnefici – e perfino i loro capi – erano tornati a casa e spesso avevano riavuto il loro posto nella gerarchia sociale.
Fu in questo clima che i carnefici che avevano torturato e stuprato furono rilasciati con sentenze assai blande. Chi aveva con le armi liberato il Paese, invece, fu perseguitato con stupefacente accanimento. Questo sin dalla primavera del ’45, quando i tribunali militari alleati perseguirono i capi delle formazioni garibaldine del nord Italia per fatti avvenuti nel corso della guerra, ma ritenuti illegittimi.
I processi ai partigiani
Per dare la misura della persecuzione vale la pena di citare I processi ai partigiani nell’Italia repubblicana, di Michela Ponzani. L’autrice parla di «308 partigiani fermati, 142 arrestati, 46 denunciati a piede libero, 34 condannati alla pena complessiva di 614 anni e 10 mesi di reclusione, di cui 55 assolti dopo aver scontato 35 anni complessivi di carcere preventivo e 54 amnistiati dopo aver scontato 10 anni e 8 mesi di carcere preventivo. A queste cifre devono aggiungersi quelle relative al solo 1950 che indicavano il numero di 131 partigiani processati per fatti inerenti la guerra di Liberazione, dei quali 27 condannati a una pena complessiva di 460 anni e 10 mesi di carcere e 52 amnistiati dopo aver scontato complessivamente 128 mesi di carcere preventivo».
Lo stigma sociale
Ma non c’era solo il carcere, c’era lo stigma sociale dell’essere stato partigiano. E c’erano la fatica di trovare un lavoro, il marchio della militanza politica (come successo a Cesare Curcio a Pedace) e la scomunica della Chiesa. Fino ad arrivare a giorni più prossimi ai nostri tempi, perché la Festa della Liberazione pur essendo antica, non ha trovato che di recente cittadinanza sui giornali e nelle aule di scuola, uscendo da un dimenticatoio ben organizzato e resistendo fin qui ad attacchi improvvisati e maldestri, ma le cui origini sono antiche.
È guardando indietro che capiamo chi sono davvero i vinti e chi i vincitori. E capiamo che il 25 Aprile è divisivo giacché separa i giusti dagli ingiusti. E se oggi La Russa – che quasi non riesce a pronunciare la parola antifascismo – è presidente del Senato, è perché quelle aule non sono un bivacco di manipoli, come chi è raffigurato nei busti che tiene in casa avrebbe voluto.