Nelle ultime settimane sulla stampa ha fatto capolino qualche timido e sporadico accenno alle violenze su donne e bambini in zone dove si combattono guerre. L’Enunciazione, nazionale e internazionale, si presenta per lo più accusatoria, in relazione a questa o quella milizia, prescindendo dal riferimento alla tragedia collettiva che si consuma, da sempre, sul corpo delle donne. Il panorama divulgativo che si dispiega in questi termini è inesatto e fazioso, a ribadire un certo approccio informativo che di tutelante e/o esplicativo ha poco o niente, in continuità al paradigma dominante vocato all’odio e alla semplificazione estrema. Occupandomi di questioni di genere, nell’affrontare certi argomenti, sono esercitata a tenere conto di tutta una serie di variabili che il lettore medio non è tenuto a contemplare, pur essendo parte in causa di una comunicazione che rischia di ridursi ad una fattualità vuota, proprio perché, drammaticamente banalizzata e deplorevolmente enfatizzata.

Le prime vittime delle guerre sono le donne
Proviamo a definire i termini della questione in maniera meno scontata. Nel 2000 il Consiglio di sicurezza delle nazioni unite elabora la Risoluzione 1325 per esplicitare l’impatto maggiorato che le guerre hanno sulle donne. Alla luce dello scandalo afferente agli stupri etnici nei territori serbo-bosniaci – che ha visto i Caschi Blu rovesciare il ruolo delle cosiddette Missioni di Pace – gli attori internazionali hanno rivolto un’attenzione senza precedenti alle donne esplicitando il ruolo significativo che, proprio loro, hanno nella prevenzione dei conflitti. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché, proprio coloro che subiscono le guerre a livello più profondo, sono escluse dai negoziati di pace? Facciamo un passo indietro.
Il riferimento ad una ricaduta impari delle dinamiche belliche a livello femminile passa, in primis, da una fisicità che, essendo preposta alla riproduzione, ha ispirato la declinazione dell’abuso in senso genetico. Se annientare il nemico significa debilitarlo in maniera quanto più profonda e irreversibile, qual è lo smacco identitario più profondo per chiunque? Cosa c’è di più temibile, per un popolo, della soppressione (sistematica) della propria discendenza?

I civili in mezzo ai conflitti
Consideriamo poi che, in una retrospettiva basica, gli scontri bellici odierni si caratterizzano per le ricadute, quasi esclusive, sui civili, con quanto ne consegue. Domandiamoci ora: cosa fanno, gli attori coinvolti in guerra, per tutelare la popolazione da una violenza sessualizzata basata sul genere? Quanto ci è dato di apprendere dai canali news, lascerebbe pensare non ci siano contromisure di sorta rispetto ad uno dei tanti aspetti da considerare in contesto bellico.
Privilegiando una prospettiva che si concentra sul presente, dichiaro subito che, a motivare questo moto argomentativo, è lo stupore personale rispetto alla non considerazione di un dettato sovrannazionale che, per una volta, si rivela estremamente adeguato all’analisi di un contesto che merita di essere concepito in tutte le sue specificità. Al netto della perplessità sull’assurdità di moti bellici odierni (che scarsa stima restituiscono ad un’umanità contemporanea, ahinoi, poco avvezza all’esercizio umanistico prima che umanitario) siamo tenuti ad una disamina onesta di quanto osserviamo, in relazione a quanto conosciamo in materia di diritti e tutele, in un panorama generale che pare riservare poco spazio alle vittime.
Le guerre descritte come “inevitabili”: Siria, Yemen, Ucraina e Gaza
Dalla Siria allo Yemen, passando per l’Ucraina e senza dimenticare Gaza, come si dispiegano quelle azioni di confronto armato, che pure ci vengono presentate quali ineluttabili? Quali sono gli spazi discrezionali, in termini di riduzione del danno, all’interno dei quali, si sarebbe nella possibilità di agire, con ricadute non trascurabili a livello pragmatico e trasversale?
Se come soggetti della società civile organizzata, preposti alla tutela di categorie portatrici di fragilità sociale, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo in termini dottrinali, come osservatori internazionali siamo consapevoli che, in una parentesi che si caratterizza per l’instabilità crescente dello scacchiere internazionale, la non importanza riservata ad alcune materie risulta preoccupante, oltre che peccaminosa.
Le vittime abbandonate
Nel denunciare l’imperdonabile disaffezione riservata alle donne, anche quando in evidente stato di oppressione generalizzata – quale è quella propria delle guerre – riteniamo importante fare un focus su una materia che ci vede attivi da molti anni, e che si ispira al perimetro della più importante tra le iniziative internazionali di genere. Raccontare la Women, Peace and Security Agenda ci permetterà di intervenire nel dibattito in maniera originale, ispirandoci ai valori che sono alla base del nostro impegno, primo tra tutti, la tutela dei diritti delle donne.
Convinti come siamo che l’intera gamma dei diritti umani trovi la propria esaustività in una prospettiva di genere ancora sottodimensionata, ci impegniamo a dare visibilità ad un ambito, tanto di nicchia, quanto di interesse generale, per promuovere una causa la cui premessa maggiore sta proprio nello squilibrio argomentativo che la caratterizza.

La guerra è uno strumento per marcare i confini e perpetuare i soprusi
La rubrica Donne, Pace e Sicurezza vuole esercitare il confronto tra quanti, convinti come noi che la guerra sia solo la modalità più (stolta e) rodata per perennare i soprusi e rimarcare i confini, non cedono allo sconforto, consapevoli che non arrendersi al presente vuol dire, prima di tutto, impegnarsi per cambiare le cose, partendo proprio da visioni marginalizzate, ma non superflue.
Manuela Vena
Presidente Associazione Culturale Fidem
Membro del tavolo di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale su donne, pace e sicurezza