Qualche giorno fa su questo stesso giornale, Sergio Pelaia ha scritto un illuminante articolo sul non finito e sul consumo di suolo che erode paesaggi e luoghi naturali, coste e colline di questa terra martoriata. Al cemento, in questa torrida estate si è aggiunto il fuoco che ci sta portando via alberi, animali, paesaggi e risorse. Abbiamo perso, e seguiamo perdendo, le tracce della antica civiltà magnogreca, fondata su proporzione e stile, in una parola sulla bellezza. Al modello delle città antiche, in tutto il sud, circondate di bellezza, abbiamo sostituito il precario, l’ordinario, il degradato, in una caotica, brutta, distorta modernità.
Oggi, dopo i danni della pandemia, del clima impazzito, della terra ferita, riscoprire massicce dosi di bellezza quotidiana, come la tazzina del caffè di tutti i giorni, dunque come virtù civile, vuol dire rieducarci alla cultura e al gusto del bello, proprio perché nelle condizioni che stiamo vivendo, le città, i luoghi, le piazze, i paesaggi dell’anima e dello sguardo, le case, devono essere il rifugio di una nuova, necessaria meraviglia delle piccole e grandi cose, degli sguardi e della mente.
La bellezza come necessità
Sembra, questa necessità, questa urgenza di bello, il vezzo di un inguaribile esteta, ma si tratta in Calabria, una terra piena di ferite dell’orrore sotto ogni forma, di una necessità impellente, di un ritrovare una rotta che dietro la parola bellezza trascini armonia, ovvero quella qualità di noi esseri umani di appagare l’animo attraverso i sensi, ritrovando il gusto di una meritata, significativa contemplazione.
È come se si fossero inceppati più di un meccanismo nelle nostre menti, così da rimanere impigliati e incapaci di uscirne, non sapere più capire cosa selezionare per estasiarci e contemplare, e al nostro sguardo perduto dietro sequenze di non finito, di coste martoriate, di terre bruciate, di degrado a perdita d’occhio, si aggiunge quello miope della cronica incapacità della politica di oggi di confrontarsi con la bellezza e saperla offrire e diffondere nelle comunità.
Un’arma contro la rassegnazione
La politica calabrese – italiana – non lo sa il significato di bello, non pratica la bellezza, non è un “ingrediente” delle attività volte a rendere tutto migliore perché nel brutto trova alimento alle proprie aspirazioni di potere elettorale, creando bisogni piuttosto che soluzioni. Un dato preoccupante, un tratto civile che un protagonista delle ribellioni alla mafia, alla malavita, al malcostume imperante, già negli anni Settanta, come Peppino Impastato – ucciso nel 1978 – aveva ben descritto.
«Se si insegnasse la Bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità: si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla Bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».
Un’idea condivisa
Bellezza, Impastato lo scriveva con la maiuscola, non a caso, e nel suo significato militante, il bello aveva un preciso senso: non estetica aristocratica, ma riconoscimento di ciò che è buono, della qualità, prima che della quantità.
Ma Impastato non è stato il solo a proporci questa visione delle cose. Papa Francesco ne ha parlato nella sua bellissima enciclica “Laudato sii”, e non so quanto, proprio i cattolici ne abbiano seguito l’insegnamento. E ancora prima del Papa, quella figura straordinaria del cardinal Martini, scriveva «Quale Bellezza salverà il mondo? Il mondo moderno, essendosela presa contro il grande albero dell’essere, ha spezzato il ramo del vero e il ramo della bontà. Solo rimane il ramo della Bellezza, ed è questo ramo che ora dovrà assumere tutta la forza della linfa e del tronco», riferendosi ad un brano dello scrittore russo Solženicyn sull’unità di queste virtù.
Il divario tra cittadini e politica
La bellezza, dunque, può ancora salvarci? Citando una frase abusata, ma che in momenti difficili come questo appare come una vera ancora di salvataggio, forse sì. Però occorre fare in modo che – soprattutto per le nuove generazioni che vivono oggi la pandemia come un monito – sia ancora realizzabile il sogno di educare la gente alla bellezza, per mantenere vivi curiosità e stupore. E questo può avvenire solo coltivandola la bellezza, dalle scuole alla società, con le Arti, la Natura, la Cultura, soprattutto, armi civili potenti che agiscano contro tutte le inciviltà, l’arroganza, la negligenza, la rinuncia e rassegnazione, atteggiamenti cronici che al sud hanno finito -oggi- per aumentare il divario enorme tra cittadini e politica.