«Il calcio è il vero romanzo popolare. E come ogni romanzo individua, racconta, segna un momento storico». Sono parole di Aldo Cazzullo, scritte commentando la vittoria agli Europei degli Azzurri, che ha portato in piazza a festeggiare italiani di ogni età e condizione sociale, meridionali e settentrionali finalmente liberi da reciproci pregiudizi.
Non occorre però vincere una coppa prestigiosa per rendere vere le parole di Cazzullo. Ogni vittoria nel calcio, giocato su campi prestigiosi o su quelli con il fondo d’erba spelacchiato, quasi in ogni parte del mondo secondo una specie di globalizzazione buona, dà vita alle comunità dei cittadini. Ne delinea in buona misura l’identità. Ne compensa le sofferenze individuali e sociali. Questo è il motivo principale perché, scendendo di molto nella gerarchia dei valori, Guarascio è l’uomo sbagliato al posto sbagliato.
Cambia la categoria, ma non Guarascio
Serie B o C è la stessa cosa, perché il presidente del Cosenza non ha solo incompetenza calcistica. Né ha solo una presunzione e arroganza cosmica al punto da sfidare l’opinione pubblica che con la sapienza dei semplici gli urla contro «Guarascio vattene». Guarascio non sa nulla di identità di romanzo popolare, di passioni tanto intense ma compensative di ciò che manca nella vita di ciascuno. È ontologicamente incapace di capire anche la frase semplice e chiara di Cazzullo.
Ecco perché apriamo il primo numero de I Calabresi con il suo faccione sorridente ed irridente. Con lui il calcio – uno dei fattori identitari di una città calabrese che, ad onta delle conclamate affermazioni eccitate e autoreferenziali del sindaco e dei suoi fedeli, non è al centro dell’attenzione/conoscenza nazionale – non diverte. Non fa sognare. Non compensa miseria e marginalità. Non serve quasi a nulla.
Guarascio si tenga i suoi dobloni da rifiuti come Paperon de’ Paperoni. E ci lasci almeno liberi dalla sua arida e inutile taccagneria.