Il porto di Gioia Tauro nasce da una tragedia italiana, vale a dire dal fallimento abortivo nella costruzione del quinto centro siderurgico nazionale. Tutto cominciò con l’invettiva “boia chi molla” dei fascisti a Reggio Calabria. Serviva dare anche una risposta politica a quella rivolta. E la costruzione della grande fabbrica era esplicitamente presentata come una misura compensativa rispetto alla scelta di Catanzaro come capoluogo della Regione.
L’affare del secolo
Altre promesse mai mantenute erano contenuto nel cosiddetto “pacchetto Colombo”.
Il giorno della memoria della Resistenza, il 25 aprile 1975, l’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, pose la prima pietra di una fabbrica che non nascerà mai. Ma fu, in compenso, un affare del secolo per i mammasantissima, proprietari per gran parte di quei 300 ettari di terreni nella Piana, che lo Stato espropriò a valori stratosferici.
Al servizio dello stabilimento siderurgico mai nato si costruirono cinque chilometri di banchine portuali. Poi non successe più nulla. Tutto rimase nell’abbandono più totale e desolante: sino al 1993 non attraccò neanche una nave. Edoardo Scarpetta avrebbe detto, parafrasando Gabriele D’Annunzio, neanche ’o vuttazziell ‘e zi Nunzio.
L’ombra delle ‘ndrine
Angelo Ravano, un brillante imprenditore marittimo genovese, comprese che quella risorsa infrastrutturale – rimasta senza alcuna utilizzazione – si adattava perfettamente alle dinamiche del traffico commerciale emergente, vale a dire i collegamenti navali transoceanici tra Asia ed Europa.
Sin dall’inizio delle attività, il porto è stato tenuto sotto scacco dalle cosche Piromalli e Molè. La Commissione parlamentare antimafia – nel febbraio del 2008 – ha concluso che la ‘ndrangheta «controlla o influenza gran parte dell’attività economica interna al porto e utilizza l’impianto come base per il traffico illegale».
Eppure, nonostante i pesanti condizionamenti della criminalità organizzata, Gioia Tauro, a cavallo tra la metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, si è conquistata un posto nelle rotte della globalizzazione. Poi, per una parentesi durata un decennio, anche il ruolo di snodo nelle grandi rotte delle navi portacontenitori è entrato in crisi. Il gestore del terminal container ha bloccato il piano di investimenti necessario per mantenere e rilanciare la competitività.
I rischi di un’unica vocazione
Questa paralisi di recente è stata superata, con il cambio nell’asseto proprietario della società che gestisce il terminal. E nel 2020, nonostante la crisi, il porto di Gioia Tauro è tornato a superare la soglia dei 3 milioni di teu. Va bene così? Siamo tornati su un corretto tracciato di sviluppo? La mia risposta è negativa, per diversi ordini di motivi. Innanzitutto, il porto Gioia Tauro non ha mai superato la caratteristica monovocazionale, vale a dire la assoluta dipendenza dal solo traffico di transhipment dei contenitori. Si tratta di un posizionamento rischioso. Se cambiassero le convenienze del mercato, ci si mette un attimo a perdere tutto il traffico, come ha dimostrato l’esperienza recente del porto di Taranto.
Hinterland e trasbordo
Le navi impiegano nulla a virare la prua e andare dove si dovessero manifestare convenienze economiche maggiormente interessanti. Oltretutto parliamo di un posizionamento in un segmento di mercato a basso valore aggiunto per il porto che gestisce questa attività.
Ma soprattutto il porto non parla al territorio della sua Regione. Arrivano le grandi navi portacontenitori, si effettuano le operazioni di riordino sulle banchine e partono le navi di minore dimensione per le destinazioni finali dei container. Nel gergo marittimo si distingue tra container “hinterland”, destinati o in origine dal territorio circostante al porto, e container di “trasbordo”, che non escono dalla cinta daziaria e vengono movimentati solo per il transito da una nave madre ad una nave figlia.
I container “hinterland” per il porto di Gioia Tauro sono pari a zero, mentre tutto il traffico gestito riguarda i container di “trasbordo”. Il valore aggiunto per il territorio regionale è praticamente nullo, se si esclude l’attività all’interno del porto stesso, che consiste sostanzialmente nel riordino dei contenitori da una nave di dimensioni maggiori verso le navi “feeder”, che portano la merce alla destinazione finale.
Nessuna ricaduta
Qualche numero ci può aiutare meglio a comprendere il ragionamento sul destino di Gioia Tauro, sostanzialmente sganciato dalle dinamiche del territorio regionale calabrese. Se consideriamo il traffico commerciale nella sua interezza, prendendo in considerazione tutte le tipologie di merci movimentate, Gioia Tauro è completamente assente nei segmenti delle rinfuse liquide e solide, mentre concentra la sua attività nelle merci varie, esclusivamente per il traffico dei contenitori.
Lo si legge nel Grafico 1: il porto di Gioia Tauro non esiste per nulla nelle rinfuse solide e liquide. Invece pesa nel 2020 per il 16,5% sul totale del traffico nazionale, espresso in tonnellate, nel segmento delle merci varie; Gioia Tauro incide per il 9% sulla movimentazione delle merci complessive dell’Italia.
Grafico 1
La rilevanza dei numeri che sono movimentati dal porto di Gioia Tauro sul volume del traffico nazionale di merci non riflette però una ricaduta che si esprime nel radicamento del porto rispetto al territorio regionale. Si tratta di uno degli effetti della globalizzazione: si può essere snodo della rete globale senza essere snodo per il territorio in cui si è collocati.
La chiave di interpretazione strategica è ancora più chiara quando facciamo riferimento nello specifico al traffico dei contenitori. Nel Grafico 2 si verifica che, in base ai dati 2020, sempre espressi in tonnellate. Mentre il traffico “hinterland” non esiste per nulla nel porto calabrese, Gioia Tauro pesa per il 78,4% nel traffico di trasbordo sul totale nazionale.
Serve a tutti tranne alla Calabria
Complessivamente, l’incidenza totale sul traffico contenitori nazionale è pari al 29,9% Insomma, Gioia Tauro serve al mondo, all’Italia, forse alla criminalità organizzata, ma non alla Calabria. Questo è il punto nodale sul quale occorre riflettere, per le implicazioni di politica regionale e meridionale. Ovviamente, non si tratta di perdere una caratteristica che costituisce un elemento di forza, ma di rendere questo aspetto non l’unico fattore sul quale puntare per il futuro del porto di Gioia Tauro.
L’evoluzione strategica della portualità internazionale nel corso dell’ultimo decennio dimostra che i porti di “transhipment” si sono trasformati anche in porti “gateway”, capaci di dialogare con il territorio nel quale sono presenti. È accaduto ad Algesiras ed a Valencia, tanto per fare due esempi.
Grafico 2
Un deserto industriale
Perché si è determinato questo andamento? Innanzitutto perché la Calabria è un deserto industriale. Un porto non genera merce, ma trasporta ciò che il territorio è in grado di esprimere. Quindi il primo punto per determinare una svolta riguarda la necessità di inspessire una struttura produttiva gracile.
Da questo punto di vista la zona economica speciale può costituire una opportunità da cogliere, se si è in grado di attrarre investimenti manifatturieri che possono capitalizzare la rete di collegamenti mondiali di cui il porto di Gioia Tauro è dotato.
Poi, un secondo punto riguarda la rete delle altre infrastrutture di connessione, che costituisce un elemento di debolezza competitiva del porto calabrese. Per decenni si è parlato della necessità di migliorare la qualità della rete ferroviaria per il traffico merci, ma le chiacchiere stanno ancora quasi a zero. Solo a tale condizione si può allargare quella che si chiama la catchment area, vale a dire il territorio di influenza della infrastruttura portuale. Un intervento di tale natura consentirebbe non solo di consegnare per ferrovia una parte consistente dei container rivolti ai più rilevanti mercati italiani, ma anche di cominciare a lavorare i contenitori stessi, non solo per lo stoccaggio ma anche per operazioni a maggior valore aggiunto.
Una trasformazione necessaria
Trasformare il porto anche in una fabbrica logistica può mettere al riparo dalla fluttuazione dei traffici dei contenitori, che dipendono, quando si è specializzati solo nel segmento del trasbordo, esclusivamente dalle dinamiche della globalizzazione.
Nella fase successiva alla pandemia certamente il modello di specializzazione internazionale del lavoro e di dislocazione delle fabbriche è destinato a cambiare. È presto per dire esattamente quali saranno queste dinamiche, ma è molto probabile che le grandi macroregioni del mondo tenderanno a scambiare merci più all’interno dei grandi blocchi, che non su scala globale.
Qualche segno lo si comincia a cogliere, proprio a Gioia Tauro. Lo vediamo nel Grafico 3. Nel primo semestre del 2021, l’incidenza del porto calabrese sul totale dei contenitori movimentati a livello nazionale è scesa, rispetto dato annuale del 2020. Nel trasbordo si è passati dal 78,4% al 75,6%, mentre sul totale del traffico contenitori si è passati dal 29,9% al 26,1%.
Grafico 3
Insomma, stare solo sul business del trasbordo dei contenitori non lascia nulla alla Calabria, e non costruisce un futuro solido per lo stesso porto di Gioia Tauro. Servono le opere di completamento delle infrastrutture ferroviarie. Serve un serio piano di industrializzazione regionale, assieme ad un disegno logistico per rendere più robusto il posizionamento competitivo dello scalo calabrese. In altri termini, va messa in campo una strategia, e la capacità di attuarla. La zona economica speciale e gli investimenti del PNRR possono essere le due gambe per mettere in campo una operazione di innovazione industriale, logistica e sociale.