Era… Ora, con I Calabresi una voce libera contro gli “accorduni”

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Ospitiamo con estremo piacere il contributo che Luciano Regolo, già direttore dell’Ora della Calabria e attuale condirettore di Famiglia Cristiana, ci ha voluto inviare in occasione della prima uscita online de I Calabresi.

Quando Francesco Pellegrini mi ha parlato del sogno e della sfida di questo nuovo giornale online, I Calabresi, ho subito pensato che bisogna proprio fare il tifo per questo progetto. Una informazione totalmente libera, una voce autenticamente critica sono ancora più importanti in una terra come la nostra, dove potentati, neppure più tanto occulti, sono in grado di provocare una stagnazione cronica nel tessuto socio-economico della comunità. Per smuovere la palude, la logica degli accorduni di stampo massonico, occorrono sassi scagliati da voci libere e coraggiose.

La sfida di Pellegrini e della sua squadra, in cui già ci sono due cronisti che io conosco bene, Alfonso Bombini e Camillo Giuliani, reduci come me dalla ferita dell’Oragate, mi ha riportato a galla emozioni contrastanti, la voglia che avevo quand’ero venuto a lavorare nella mia Calabria, la delusione provata dopo il cosiddetto “caso Gentile” e la chiusura del quotidiano che dirigevo, il dolore per la sentenza che, nel silenzio e nell’indifferenza generali ha lasciato impuniti i responsabili di un caso di censura degno di contesti dittatoriali.

Nel 2018, infatti, lo stampatore Umberto De Rose è stato assolto dal giudice del Tribunale di Cosenza, Manuela Gallo, dall’accusa di tentata violenza privata in riferimento al blocco delle rotative, nella notte fra il 18 e il 19 febbraio 2014, che non fece mai arrivare in edicola L’Ora della Calabria. Quella notte io registrai la telefonata che De Rose fece all’editore del quotidiano, Alfredo Citrigno, nella quale gli “consigliava” di non pubblicare la notizia su una indagine a carico del figlio del senatore Tonino Gentile, Andrea (per il quale per altro cadde poi ogni accusa in merito). Nella telefonata, è bene ricordarlo, si parlava di “cinghiali che feriti poi ammazzano tutti”, e si adoperavano termini minacciosi in una invettiva che Roberto Saviano ha definito una “summa della subcultura mafiosa”.  Intervistata a caldo dai tg, Rosy Bindi invece dichiarò che quella conversazione «conteneva materiali utili per la Commissione Antimafia».

Al diniego del sottoscritto di togliere la notizia, secondo l’ordine di De Rose, che parlava dichiaratamente nella telefonata per nome e per conto dei Gentile, il giornale non uscì in edicola con la scusa di un guasto alla rotativa, che poi una perizia disposta dalla stessa Procura di Cosenza dimostrerà non essersi mai verificato.

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La prima pagina dell’Ora della Calabria mai arrivata in edicola

Nel corso delle udienze del processo dell’Oragate durato ben quattro anni per concludersi con un nulla di fatto, il 16 gennaio 2017, si registrò pure l’ammissione del tecnico specializzato Davide Maxwell che dichiarò in aula che De Rose gli chiese di effettuare una perizia di parte falsa sul blocco della rotativa, certificando il guasto che non ci fu.

L’assoluzione è arrivata dopo la richiesta fatta dal pm Domenico Frascino, ma la cosa più sconcertante è che a questa richiesta si è associato anche il legale che allora mi seguiva, l’avvocato Giulio Bruno, senza avermene mai parlato, a mia totale insaputa. Gli chiesi spiegazioni e lui tirò in ballo la dottrina giurisprudenziale, la formulazione del capo di imputazione che sarebbe stata errata.

Un epilogo grottesco dopo quattro anni di lungaggini e strani rinvii, com’è grottesco che si si sia assolto per motivi formali o procedurali chi soffoca la libertà di stampa, perché in un quadriennio si sarebbe potuto facilmente procedere in maniera diversa. Ancora più doloroso fu il silenzio calato su questa vicenda da parte dei media, quel far finta di nulla che già avevo notato durante le udienze quando gli sparuti colleghi delle testate locali che venivano ad assistere a me chiedevano solo se mi mancava la Calabria, raccogliendo invece il “verbo” del difensore di De Rose.

Lo stampatore, legato da lunga e vecchia amicizia con Tonino Gentile, non è mai stato querelato da quest’ultimo per come usò il suo nome, quella notte, per esercitare pressione e questo nonostante l’ex sottosegretario, abbia più volte sostenuto, a propria difesa, di essere stato vittima di un «complotto mediatico»: quelle frasi minacciose che io registrai, però, le pronunciò un suo sodale e non un suo nemico. Le pronunciò una persona che Gentile chiamò spontaneamente e ossessivamente più e più volte, per ottenere il suo scopo fino a tarda notte.

Io registrai quella conversazione trovandomi con l’editore nella sua auto, mentre De Rose lo chiamava dopo che avevo appena dato “l’ultimo visto si stampi” a quel numero del quotidiano. Chiamava per ricordare fra l’altro all’editore, Alfredo Citrigno che «loro», i Gentile, padre e figlio, dopo aver mandato «signali» di pace, «stanno aspettando una risposta», ossia volevano essere rassicurati sul fatto che io avrei «cacciatu sa’ notizia».

Da allora Gentile non prese mai pubblicamente le distanze dallo stampatore che all’epoca dell’orrenda telefonata era pure presidente di Fincalabra e aveva reclutato entrambi i figli del senatore in ben remunerate mansioni per la finanziaria regionale, poi finite (pure esse) nel mirino della magistratura. Angelino Alfano, ministro della Giustizia all’epoca dell’Oragate, difendendo il compagno di partito Tonino Gentile, costretto a dimettersi per lo scandalo da sottosegretario alle Infrastrutture pochi giorni dopo la nomina, disse: «Il suo diritto alla difesa è stato calpestato dall’onda mediatica, ora da persona libera si difenderà».

Ma Gentile, ripeto, non si è mai difeso querelando l’unica persona che l’ha dipinto come il cinghiale vendicativo: ossia il suo amico Umberto De Rose, col quale tra il 18 e il 19 febbraio parlò al cellulare, come risulta dai tabulati telefonici, fino a due minuti dopo la chiamata che io registrai, a notte fonda (risultano in totale una trentina d’impulsi, con tanto di frenetiche chiamate ripetute del senatore allo stampatore mentre la linea del primo era occupata, durante la conversazione con Citrigno che io registrai).

Quella registrazione fu la sola possibilità di difesa per i miei colleghi e per me. E anche se non è servita a ottenere giustizia (ricordo che quando consegnai l’audio originale agli agenti di polizia si commossero ringraziandomi perché “con questi gesti si dava un senso al loro lavoro”) resta tuttora l’unica traccia di una realtà oscura che si è voluto a tutti i costi insabbiare, di una situazione fosca che si è fatto di tutto per rendere sempre più confusa. Ma negli occhi di noi che abbiamo vissuto i due mesi di occupazione della redazione che seguirono alla chiusura della testata, o la nascita del blog l’Orasiamonoi quando ci fu oscurato anche il sito del giornale per impedirci di informare la comunità, resterà sempre impresso lo striscione che elaborammo per le nostre azioni di protesta: “L’Ora della dignità”.

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Il direttore Luciano Regolo, l’ex segretario della FNSI Carlo Parisi e una parte della redazione de L’Ora della Calabria stendono il loro striscione sulle scale della Prefettura di Cosenza

Tanti sapevamo che la nostra rivolta non sarebbe durata, sapevamo che la nostra testata sarebbe morta, come il sogno di libertà che cullavamo. Ma sapevamo che così nessuno avrebbe potuto uccidere la nostra dignità o imbavagliare un pensiero che resterà sempre vivo. E me lo conferma oggi il progetto di Francesco Pellegrini e del suo team, ispirato alla stessa determinazione. Ci sarà sempre qualcuno che troverà la forza di alzare la testa e la voce contro i cinghiali di turno.

Luciano Regolo
Giornalista e scrittore

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