Sono numerose le iniziative che in questi giorni hanno animato i centri cittadini della Calabria in occasione del 25 novembre. La panchina rossa è diventata anche nella nostra regione simbolo del contrasto alle violenze esercitate dagli uomini sulle donne. L’uso del plurale si rende necessario per evidenziare le molteplici forme di violenza che subiscono le donne. Non è infatti solo la violenza fisica ciò che caratterizza molte relazioni che degenerano in prevaricazione. Si esercita violenza verbale, psicologica, economica. Si isola la donna socialmente per ridurre i rischi che possa confidarsi, per continuare a esercitare potere su di lei, preda di una cultura patriarcale di cui è pervasa la nostra società e che ha radici antiche.
Le ricorrenze sono importanti ma non bastano
La pandemia e le misure di contenimento dei contagi adottate, che hanno portato a una maggiore permanenza della famiglia in casa, e il precipitare delle condizioni socio-economiche nella crisi accentuata dall’emergenza sanitaria, sono ulteriori elementi di possibile aggravamento dei comportamenti violenti.
Occorre dunque interrogarsi su cosa e come agire per ridurre il rischio che le donne si trovino in condizioni di violenza domestica, perché non può bastare l’attenzione al fenomeno in un breve intervallo temporale attorno al 25 novembre e all’8 marzo, benché entrambe le ricorrenze siano importanti occasioni di sensibilizzazione e informazione.
L’Italia bacchettata dalla Corte europea
Il nostro paese ha ratificato nel 2013 la convenzione di Istanbul, che declina una serie di misure da adottare, ma che non è mai stata applicata realmente. Lo dimostra la condanna della Cedu, risalente al 2017, per aver infranto, nell’ormai noto caso di Elisaveta Talpis, ben quattro articoli della Convenzione europea sui diritti umani: l’art. 2 sul diritto alla vita, l’art. 3 sul divieto di trattamenti inumani e degradanti, l’art. 4 e l’art. 14 sul divieto di discriminazione. La Corte raccomanda al governo italiano di rispettare gli impegni presi emanando nuove leggi, colmando le lacune normative, istituendo una struttura ad hoc, lavorando sull’educazione e sull’empowerment femminile. L’Italia nel 2020 presenta quindi un piano, ritenuto lacunoso e incompleto dalla Cedu negli elementi già da tempo evidenziati dalle avvocate del circuito D.I.R.E.
Il reddito di libertà
Ulteriori informazioni per fare il punto sulla situazione italiana sono contenute nel rapporto Grevio, che pone l’attenzione anche ai fenomeni sempre più diffusi di revenge porn e vittimizzazione secondaria. Importante recente novità sul contrasto alle violenze contro le donne è il Dpcm del 17 dicembre 2020, che introduce il “reddito di libertà” da attribuire alle donne che scelgono di uscire da condizioni di violenza domestica. La misura è anche compatibile con altri strumenti di sostegno al reddito previsti dalle leggi italiane. Pur riconoscendone l’importanza come contributo utile per donne che hanno subito violenze, occorre comprendere che non aiuta a prevenire il fenomeno. Ciò di cui abbiamo bisogno è soprattutto attivare opportune strategie di prevenzione di violenza domestica.
Lavoro e gap salariale
Innanzitutto bisogna ridurre il gap salariale tra uomini e donne, che determina asimmetria economica, quindi asimmetria di potere, alla base delle violenze esercitate. Molte donne, soprattutto nel Sud Italia, non hanno un lavoro retribuito e nell’anno della pandemia, secondo gli aggiornamenti di Eurostat, il tasso di occupazione femminile, che in Europa è stato in media del 62,4% per le donne tra i 15 e 64 anni, in Calabria è solo del 29%. Ma già prima della pandemia tale divario era superiore alla media italiana: al primo gennaio 2019 l’occupazione femminile in Calabria risultava addirittura ridotta del 2,3 %.
Per contribuire a prevenire la creazione delle condizioni che favoriscono violenza domestica, sarebbe opportuno valutare un reddito di autodeterminazione per tutte le giovani donne, con il vincolo dell’obbligo di studio e/o di ricerca di lavoro, costruendo le condizioni perché sviluppino competenze specifiche e abbiano facile accesso a un mondo del lavoro che richiede livelli sempre più elevati di conoscenze, di abilità anche tecniche e di competenze specifiche e trasversali.
Non basta il fondo di inclusione rosa
Bisogna garantire canali privilegiati di accesso ai luoghi di lavoro per le donne che subiscono comprovata violenza domestica, anche perché è noto quanto sia faticoso e impegnativo ottenere contributi economici da parte del partner o dell’ex partner che le ha maltrattate. L’importanza di garantire un reddito alle donne, di riconoscere anche economicamente e con adeguata retribuzione il gran lavoro di cura che compiono quotidianamente in famiglia, è supportata dalla constatazione che recenti sentenze di separazione di diversi tribunali, in assenza di reddito della madre o in presenza di reddito molto basso, assegnano la residenza a figli e figlie minorenni presso il domicilio paterno, anche in caso di padre maltrattante.
Non può essere sufficiente come misura per l’inclusione delle donne nel mondo del lavoro il cosiddetto fondo d’inclusione “rosa” per le casalinghe, di recente approvazione e che non prevede la garanzia di autonomia economica ma è un credito per l’accesso gratuito a corsi di formazione, ai quali non avrebbero comunque accesso molte donne prive di reddito, in condizioni di subalternità economica, prive di mezzo autonomo di trasporto in una regione in cui è negato il diritto alla mobilità non essendoci servizi di trasporto pubblico per il pendolarismo intraregionale.
Demolire gli stereotipi di genere
Ma soprattutto è indispensabile prevedere, nelle scuole di ogni ordine e grado, percorsi specifici e mirati all’educazione alla pari dignità di uomini e donne, alla demolizione degli stereotipi di genere, all’educazione sessuale. Percorsi pressoché assenti nelle scuole calabresi. Infine, non è più tollerabile l’assenza delle donne dai luoghi decisionali della politica. In Italia solo l’Umbria ha come presidente di regione una donna e alle recenti elezioni regionali calabresi una sola donna era candidata mentre le sindache elette in Calabria sono poco più del 7% dei sindaci.
Una società paritaria è una società in cui uomini e donne hanno le stesse opportunità di crescita professionale e di accesso ai luoghi decisionali delle istituzioni, dove portare il prezioso contributo della visione femminile del mondo e il fare politica al femminile, per rendere più equa la nostra società.
Antonia Romano