Le urla di dolore si sentono ormai in tutta Italia mentre il numero dei cadaveri ritrovati dopo il naufragio di Cutro cresce e si avvicina alle tre cifre. In quella che passerà alla storia anche come la strage di Crotone c’è sicuramente un mai-visto-prima. E non solo per l’orrore degli eventi in sé, ma anche per ciò che si è appreso dopo gli eventi: le notifiche di soccorso mancate, il rimpallo tra Frontex e Guardia Costiera, gli interventi (alcuni a sproposito) della magistratura, la confusione tra interventi di polizia e interventi di sicurezza in mare. Senza dimenticare i commenti dei politici. Posticci, artefatti, qualcuno forse sincero, qualcuno addirittura criminale, laddove il crimine commesso si può ipotizzare come vilipendio della vita umana e della capacità, anzi del diritto umano, di auto-determinazione.
Ignoranza e razzismo
È quasi criminale in questo senso il commento del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che ha affermato davanti alla tragedia: «Io non partirei se fossi disperato, sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi cosa devo chiedere io al luogo in cui vivo ma cosa posso fare io per il Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso».
In questa affermazione il ministro sembra confondere il diritto all’auto-determinazione e alla partenza in caso di “disperazione” (dal conflitto, dai disastri naturali, dalla povertà) con la prospettiva – spesso vuota – di una certa parte di neoliberisti ossessionati dalla retorica dell’individualismo e fortemente concentrati sull’idea che individualismo escluda ogni forma di debolezza o dipendenza.
Ma in questo commento, e in altri simili tra cui quello della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che ha ricordato come il governo stia cercando di aiutare questi migranti a non partire e cadere vittima di trafficanti e criminali organizzati vari con decreto flussi e corridoi umanitari del caso – c’è solo tanta ignoranza su come funzionano effettivamente i traffici criminali verso le coste del Sud, inclusa la tratta di umani. E c’è una buona dose di razzismo.
La crimmigration? Paura dell’altro
Il razzismo di cui si parla qui non riguarda i colori della pelle – non sempre e non solo, almeno – ma passa da una parola apparentemente neutra – quella di ‘migrante’.
Il termine migrante, quando non seguito da specificazioni, attiva istantaneamente una serie di pregiudizi, culturali, razziali, sociali, che spesso fanno dimenticare o passare in secondo piano l’umanità dietro questa etichetta.
Si è parlato di fondamentalismo culturale, oppure di razzismo istituzionalizzato, all’interno di un fenomeno più ampio dove il potere costituito usa i cardini e gli strumenti del sistema penale per affrontare un problema di controllo dei confini e della migrazione.
È la cosiddetta crimmigration – “crimmigrazione” – ed ha risultati simili ovunque nel mondo: si deumanizzano le vittime e si giustifica il loro trattamento – chiamato “di sicurezza” ma effettivamente “punitivo” – come risposta legittima, meritata e appropriata alla “violazione della legge” legata alla violazione dei confini.
Brandire una bandiera di legalità astratta, dunque, aiuta a criminalizzare le ONG in mare, ad arrestare la Carola Rackete di turno e chi come lei si appella al diritto naturale alla vita e non al rispetto dei confini imposti da uno stato cieco, si ribella a chi chiude i porti, e rifiuta di far finta che il diritto universale e internazionale non imponga il salvataggio delle vite umane a prescindere dalla volontà dei vari governi della fortezza-Europa.
Il nebuloso concetto di sicurezza nazionale, come europea, sta al centro della crimmigration. Ma di base la crimmigration – al suo cuore – è solo la paura dell’altro.
L’ossessione della sicurezza
Crimmigration è un termine coniato in criminologia nel 2006 che descrive la progressiva criminalizzazione di rifugiati, migranti richiedenti asilo, e in genere migranti che arrivano per mezzi considerati illegali, grazie a due processi interconnessi.
- L’aumento di politiche di controllo della migrazione alle frontiere (per esempio bloccando le navi delle ONG all’arrivo nei porti). Queste politiche sarebbero volte a ridurre i flussi migratori, quasi per magia. Ma è provato che non portano a una diminuzione della migrazione in sé, quanto in realtà aumentano soltanto le possibilità di immigrazione clandestina (ergo criminalizzata).
- La retorica della migrazione come cancerogena per le società riceventi è diventata cavallo di battaglia di partiti populisti che ricorrono all’istigazione all’odio quando i numeri e i dati non sono facilmente interpretabili a loro favore: ricordate il muro tra Messico e Stati Uniti paventato dall’ex-presidente USA, Donald Trump?
E così stereotipi che troppo spesso non hanno fondamento scientifico diventano verità incontrovertibili; diffuse paure dell’altro diventano ossessioni per la sicurezza e repulsione dell’altro; erronee comprensioni di come funziona il crimine, soprattutto quello organizzato, assegnano etichette di criminali un po’ a caso.
Gli altri (non) siamo noi: il complotto dello straniero
La paura primaria dei migranti – così etichettati, ricordiamo, nel tentativo di essere “politicamente corretti” e mostrarsi neutri – va a toccare corde profonde quanto irrazionali: lo straniero diverso (non come noi); i migranti poveri che commettono crimini, stupri, furti (non come noi); i migranti che rubano il lavoro agli Italiani (non come noi). C’è chiaramente un’errata percezione dei migranti come ‘altri’ e ‘diversi’ che passa da un’errata percezione di noi, e del riconoscimento del noi negli altri.
Questa distorsione è costituente e costitutiva del modo di presumere che il “migrante” che arriva per vie illegali e/o disperato a chiedere asilo e soccorso, sia “povero”, “ineducato” e soprattutto inferiore. Questa distorsione risponde a una logica che in criminologia si chiama “complotto dello straniero” oppure alien conspiracy theory, che immagina l’ordine sociale dipendente dalla omogeneità e dalla staticità del concetto di sicurezza. Dico immagina perché l’ordine sociale può solo utopisticamente considerarsi mai tale. Bisogna rovesciare il paradigma con i dati alla mano: non è l’arrivo di migranti che crea ‘disordine’ e ‘insicurezza’, ma la cattiva gestione del sistema accoglienza, la criminalizzazione ingiustificata di chi attraversa i confini per motivi umanitari – che sia migrante o capitano di nave a bandiera ONG, e soprattutto l’aizzare le folle all’odio dell’altro anziché promuovere l’empatia e la compassione umana universale.
La crimmigration ferma la solidarietà
Oltre a consolidare queste basi concettuali, la crimmigration ha poi ulteriori effetti nefasti: per esempio, la solidarietà interrotta. Quella delle ONG criminalizzate, quella dei morti in mare per soccorsi che non arrivano in tempo, quella della burocrazia dei visti più becera che si affida ad algoritmi e non a principi di umanità nel fare scelte che cambiano la vita delle persone.
La solidarietà interrotta di stelle cadenti come Mimmo Lucano, in attesa di processo di appello dopo essere stato condannato in primo grado per illeciti amministrativi visti con le lenti di una forma di associazione a delinquere mirata all’accoglienza e al fare dell’accoglienza un modo per salvarsi anche a casa propria, passando forse dalla disobbedienza civile. La solidarietà interrotta causata dalla crimmigration passa da uno step fondamentale: chi aiuta i diversi non riconosce e non salvaguardia il noi e questo, di nuovo, fa paura, sebbene sia proprio dal riconoscimento dell’altro che, dicono i filosofi, appare lo specchio di chi siamo noi.
L’insostenibile pesantezza della compassione
Ma tutto questo – solidarietà criminalizzata, paura del migrante ‘diverso’ e politiche di crimmigration che interrompono la solidarietà – dovrebbe correggersi, o auto-correggersi, di fronte a tragedie come quella di Cutro. Dove altro si vede l’umanità e l’uguaglianza degli uomini – migranti – se non in queste morti? E invece no. Invece guardiamo le bare che si accumulano, e la compassione collettiva (quella individuale è intima) rimane superficiale.
Diceva Milan Kundera: «Non c’è nulla di più pesante della compassione. Nemmeno il proprio dolore pesa tanto quanto il dolore che si prova con qualcuno, per qualcuno, un dolore intensificato dall’immaginazione e prolungato da cento echi».
E nell’insostenibile pesantezza della compassione per l’altro, ecco che emerge chiaramente l’insostenibile leggerezza scelta da alcuni uomini e alcune donne del nostro governo, umani solo a metà.