La teoria critica dell’inclusione sociale ha a lungo contrapposto il modello assimilazionista francese a quello multiculturale di matrice canadese. Del fallimento del paradigma transalpino è noto: lo dimostrarono al mondo le rivolte della banlieue nel 2005. Cittadini francesi da almeno due generazioni, ormai fondamentalmente slegati dalla terra d’origine dei loro avi, formalmente appartenenti all’ordinamento statale, denunciarono a gran voce il loro sentimento di radicale esclusione dalle sfere della decisione politica e della redistribuzione economica.
Il multiculturalismo canadese, però, funziona con numeri addomesticabili, con buone risorse dello Stato e ancora maggiore propensione dei soggetti privati, con gruppi (etnici, religiosi, politici, sociali, razziali, linguistici) o di molto tenue consistenza o portatori di una “diversità sostenibile” per il potere costituito. Se il multiculturalismo reagiva perciò all’indifferenza dell’assimilazionismo separatista, oggi è tempo di reagire al fallimento di una pratica di governo che ha giustapposto l’una sull’altra le culture per darsi l’impressione di governare un conflitto che non sapeva leggere. Non solo: ritenere tutti indistintamente sovrapponibili a tutti genera dei mostri (pensiamo, in proposito, alla risoluzione europea della memoria: una acritica e interscambiabile rilettura del nazifascismo e del comunismo).
L’approccio interculturale
Proprio per reagire al deficit di legittimazione e rappresentatività nell’organizzazione dei poteri, ha iniziato a prender piede la metodologia del diritto interculturale, che consiste nel tradurre la differenza insita nelle posizioni di ogni relazione intersoggettiva al fine di valorizzare contestualmente l’autonomia e l’eguaglianza di ciascuna e tra tutte. Appena una generazione addietro vedevamo con entusiasmo, dinnanzi alle prime migrazioni di massa del nuovo millennio, raffinati studiosi e attivisti del nostro passato parlare di “esodi” e “moltitudini”. Senonché, molti di quegli “esodati” li ha affogati il mare tra le terre, il mare nostrum di ogni retorica propagandistica balneare, e i diritti di quelle moltitudini non hanno trovato, forse nemmanco nelle lotte, la loro voce e la loro consistenza.
Cosenza riottosa
Ha un senso ricostruire la storia di Cosenza, allora, da un punto di vista interculturale, senza che ciò sia algebra e finzione? Sarebbe un’operazione scientificamente avveduta?
Esiste, ad esempio, ormai un’ampia bibliografia che tratta del fulgore cosentino nel periodo del popolo bruzio e quelle stesse letture pure trattano della caratteristica riottosità con la quale i locali accolsero i romani, venendone solo ad esito di un rabbioso conflitto conquistati. Se ne è fatta la base di una narrazione contropotere dell’indole cosentina. Non si vuole certo scontentare i campanilismi; effettivamente la storia della città è ricca di episodi di insorgenza spontanea allo stato di cose e ancor più di tentativi di mettere a valore una stabile autonomia collettiva e territoriale, quale che fosse l’effettiva entità politica unitaria al tempo dominante.
Il lato cortigiano di Cosenza
Proprio però perché questi episodi non sono storicamente pochi non è conveniente lasciarli all’oblio di una indistinta etichetta generale, senza prendersi il gusto di andarli a riguardare per come sono avvenuti. In primis perché la vocazione socio-culturale di Cosenza è forse più resistente delle stesse forme di opposizione politica che ha nei secoli ospitato. Tanto nel periodo federiciano quanto in quello angioino, Cosenza in fondo mostra anche un lato cortigiano, un profilo di desistenza profittevole più che di resistenza testimoniale. Una piccola sublimazione dell’attitudine di Cosenza a generare un dibattito pubblico più avanzato dei suoi tempi, anche in periodi di compiacenza governativa, può forse vedersi al tempo degli Aragonesi e alla nascita dell’Accademia.
Schierarsi contro
E, in senso opposto, non finirono certo coi tumulti dei Bretti i momenti di insurrezione e aperta contestazione. Saraceni e longobardi, alcuni secoli dopo, litigarono aspramente il primato cittadino, nonostante la transizione economica e politica avesse di fatto abbattuto molte delle antiche ricchezze. E non sempre le rivolte locali ebbero fortuna o alimentarono una letteratura apologetica: il tentativo di resistere ai normanni fu illusorio quanto fugace ed è una pagina di lotta di cui poco si parla.
La storia di Cosenza come archetipo interculturale della resistenza, per essere teoreticamente fondata, non può pensarsi scevra da un’analisi di vittorie e sconfitte, in quanto questa concatenazione di rivolgimenti positivi e negativi si conserva fino al vissuto storico degli ultimi tre secoli, dimostrando il forse dimenticato o non rivissuto coraggio degli intellettuali cittadini a saper anche schierarsi “contro”. Al fine di produrre un risultato “a favore” (del beneficio collettivo).
Il valore di fare cultura
Nel periodo borbonico, non mancavano voci apertamente antimonarchiche, come negli anni in cui soffiò il vento della restaurazione per tutta Europa in città rimase una vocazione libertaria e anticlericale (che poi si ritrova su fogli periodici clandestini e regolari fino alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX). Persino sotto il fascismo, che aveva facilmente imposto alle borghesie meridionali cittadine e alla miopia del latifondo rurale un rientro nei ranghi e un protettorato di comodo, a Cosenza ci sono circoli e iniziative di impronta liberale, repubblicana, socialista.
Ci sembra allora di potere concludere queste riflessioni invocando un dato storico forte. La città ha prosperato davvero solo facendo cultura, non quando si è limitata a difender la propria o, peggio, quando ha subito l’attacco altrui. L’animus foriero di incontri, di scoperta, di intersezione proficua tra i popoli e gli spazi, è vissuto attraverso i tempi anche e soprattutto contro la malversazione, la sconfitta militare, l’invasione, la dominazione, il senso comune ridotto a senso unico. E questo è forse quanto ci tocca adesso recuperare dal fango e dall’oblio… e pazienza se le camicie si inzaccherano di polvere e mota fino ai gomiti.
Domenico Bilotti
Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia