Cesare Battisti, 69 anni, ex terrorista protagonista degli anni di piombo, condannato all’ergastolo per quattro omicidi ed altri gravi reati, catturato in Bolivia nel 2019 dopo una latitanza durata ben 37 anni, si è fatto risentire nei giorni scorsi. Aveva chiesto del vino da consumare in cella, negato. Poi alcuni agenti della polizia penitenziaria nel carcere di Parma, dove è detenuto, si sarebbero resi responsabili del «danneggiamento di alcuni suoi oggetti personali, tra cui il computer», il tutto «nel disegno di un’accanita persecuzione» nei suoi confronti: così reclama le sue ragioni il detenuto “politico” – definizione alla quale non rinuncia – Cesare Battisti: «Aggredito da agenti in carcere, hanno rotto il mio pc».
Cesare Battisti e il perdono agli ex terroristi
Il computer è diventato per lui una compagnia inseparabile. Battisti scrive, fa lo scrittore, mestiere appreso nella lunga latitanza trascorsa da fuggiasco; identità multiple e vita sotto copertura per decenni in giro per il mondo. «Un trauma» per lui che considera il computer «strumento di lavoro come scrittore ed editor di Artisti dentro», una rivista che documenta le attività dei detenuti impegnati in attività artistiche e creative nei luoghi detenzione. Ma il PC in carcere per Battisti è diventato anche «l’unico mezzo per mantenere un equilibrio psichico in circostanze tanto avverse». Responsabilità e fatti ai danni di un detenuto in un carcere della Repubblica che se accertate andrebbero sanzionate.
“Nessuno tocchi Caino”, come ci ha insegnato Marco Pannella, precetto sacrosanto di una giustizia giusta. In questi giorni il nome e il profilo di Battisti è tornato in ballo non solo per questo episodio. Si riparla di perdono agli ex terroristi. La storia, si dice da più parti, deve poter chiudere definitivamente i conti con un gruppetto di reduci della lotta armata, ormai vecchi, malati e male in arnese, anche se molti di loro circolano comunque liberi altrove e godono dello stato di rifugiati politici – certuni niente affatto pentiti – in Francia e in altri paesi che hanno offerto loro rifugio. Non è il caso di Cesare Battisti. Ormai assicurato dalla giustizia italiana alla sua pena, lunga e definitiva.
Un ragazzo di Calabria
Ma se per ipotesi Battisti dovesse ritornare in libertà e uscire per qualche motivo dalla galera, potrebbe benissimo passare un giorno o l’altro da queste parti, in Calabria, magari per scriverci sopra una delle sue storie noir. Potrebbero invitarlo a trascorrere qualche giorno di relax diplomatico sulle belle spiagge dello Ionio. Magari a Sant’Andrea Apostolo sullo Ionio, un comunello in provincia di Catanzaro che oggi conta non più di 2.161 abitanti.
Un posto che a parte il mare e le spiagge, gli ulivi e gli aranci piantati sulle colline di creta divorate del vento di scirocco, non ha altro da dichiarare al mondo oltre al fatto che dal 1931, quando faceva quasi 6.000 abitanti, ha visto sparire due terzi della sua popolazione nella diaspora infinita dell’emigrazione che ancora oggi continua a svuotare i paesi della Calabria. Oggi ci sono “androeolesi” emigrati sparsi in tutti i continenti e ai quattro angoli del mondo.
Forse Cesare Battisti a questo punto si chiederebbe il perché di quest’invito improvvido in un posto così strambo e fuori mano. Che pure di tempo ne è passato tanto. Ma il paesello di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio qualcosa a che fare con l’ex rivoluzionario (non proprio una sagoma di eroe della rivoluzione à la Che Guevara) ce l’ha. Una piccola cosa, un’emozione da poco nell’economia generale della Storia.
Qui era nato un ragazzo di Calabria, uno di quelli che per stare al mondo un giorno prendono il treno e vanno via da paesi sfiniti e inariditi come Sant’Andrea per andare a cercarsi “fortuna” dove se ne trova. Il lavoro, quello che tocca in sorte a chi emigra e ne trova uno, quello che è, qui di chiama ancora così, è “la fortuna”.
Andrea Campagna e i poliziotti di Pasolini
Di quel ragazzo partito come tanti altri dal suo paese, oggi resta solo qualche foto sorridente, i baffi e l’espressione impettita. Una di quelle foto sta al cimitero, e ingiallisce al sole sopra la lapide della sua tomba. Si chiamava Andrea Campagna, emigrò a Milano con la famiglia, trovò un lavoro, e per sua sfortuna diventò poliziotto. Uno di quei ragazzi figli degli emigrati poveri del Sud ai quali Pier Paolo Pasolini dedicò la poesia che lo scrittore, dispiacendo molto a certa sinistra radicale, pubblico su L’Espresso il 16 giugno del 1968.
Tra quei versi asciutti Pasolini dichiarava la sua distanza antropologica e sentimentale dalla rivolta degli studenti, rappresentanti della borghesia. Quella per lui non era una vera rivoluzione, non aveva a che fare con la vita dei poveri, con i figli della classe operaia e contadina. I poliziotti invece, quei ragazzini in divisa che parlavano un dialetto sporco, coscritti per fame, rappresentavano invece la classe operaia, quella che all’epoca manifestava contro la borghesia.
Una rivolta di facciata
Quelle erano manifestazioni alle quali anche gli studenti contestatori, diceva Pasolini, quasi tutti figli della borghesia urbana partecipavano sì, ma come figuranti. Per Pasolini la rivoluzione degli studenti era una rivolta di facciata, era falsa, ipocrita. Non era quella la vera rivoluzione che avrebbe realmente cambiato la società italiana: «Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati». Pasolini era già allora controcorrente, una voce dissonante in un periodo storico che sfociò poi apertamente in tensioni e violenze terroristiche, negli anni di piombo. Anche quel suo breve scritto, come il resto della sua vita e delle sue opere, fece scandalo. Ebbe effetti spiazzanti e creò talmente tanto scalpore da trascinare controcorrente l’attenzione critica del mondo culturale italiano di sinistra sui movimenti politici di quella fase storica.
«Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità». È questo il gruppo di versi di quella poesia di Pasolini, che da allora è rimasto nella storia, di cui si continuò e si continuerà a parlare ancora per molti anni.
Con le labbra, non con il cuore
Poi successe che una mattina del 1979, la faccia di Andrea Campagna, ragazzo calabrese figlio di paese e di emigranti a Milano, partito al mondo come poliziotto, finì con una foto formato tessera sulle prime pagine dei giornali. Andrea era stato ucciso “in azione” da Cesare Battisti, a quel tempo militante dei PAC e oggi rubricato nella ricca biografia di Wikipedia come “ex terrorista e scrittore italiano”. Uno che, già, approfittando dell’omonimia fa ombra alla memoria di quell’altro Cesare Battisti, il patriota trentino che con ben altra fine fu eroe dell’indipendenza italiana.
Tra gli amici di gioventù di Andrea Campagna, originario anch’egli del paese di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, c’è Salvatore Mongiardo, da cui ho raccolto il racconto di questa storia. Nel 2009 Mongiardo, emigrato anche lui a Milano, torna a Sant’Andrea e incontra Antonietta, la madre di Andrea Campagna. «Fu più forte di me, e mi misi a parlare di Andrea, della sua uccisione, di come lei, la madre, lo venne a sapere».
Il perdono con le labbra, non con il cuore
«Antonietta ricordava con estrema lucidità quel giorno terribile, e concluse: “Dicono che bisogna perdonare, ma io potrei dirlo solo con le labbra, ma non con il cuore, con il cuore no, mai”, e alzò ripetutamente la testa per sottolineare il diniego. Quando torno al cimitero del paese, rivedo la tomba e quella foto di Andrea e penso che il mondo va male perché governato da quelli che affamano i miseri e proteggono pure i delinquenti. Un mondo così, prima finisce meglio è», conclude amaro Salvatore Mongiardo, oggi uomo di successo, filantropo e filosofo pacifista ispirato dal pensiero pitagorico. Un punto di vista sul mondo che uno che sparava e uccideva per la Rivoluzione comunista come Battisti magari farebbe ancora in tempo ad apprezzare.
Caro Battisti se mai verrà un giorno da uomo libero a Sant’Andrea, in Calabria, stia certo che nessuno le rimprovererà nulla o le torcerà un capello. Potrà camminare tranquillo per le strade del paesino ionico spogliato dall’emigrazione. Magari le offriranno anche un bicchiere di vino di quelle campagne. E poi potrà andare a dare uno sguardo al piccolo cimitero del paese. Lì c’è la misera tomba di questo Andrea ammazzato da lei, Cesare Battisti, a 25 anni. Poi magari potrebbe passare anche da casa di sua madre, che se fosse viva, davanti a lei alzerà ancora una volta la testa, e ancora una volta, finché le resterà fiato, le chiederà perché, «perché, cosa ti aveva fatto mio figlio?», e le dirà ancora che per lei, dopo quello che le ha fatto, «perdonare è mai!».
Cinque colpi alle spalle
Altri lo hanno fatto, legittimamente, per dare pace e darsene, per chiudere finalmente quel capitolo della storia. Chi è morto però resta per sempre dalla parte dei vinti, dei sopraffatti dalla storia. Il perdono è un diritto, un dono, appunto, mai un dovere. Chissà che incontro sarebbe quello tra lei e quella vecchia donna che non ha mai sciolto il lutto del figlio morto ammazzato per le ragioni dei padroni e per una rivoluzione, la sua Battisti, che non c’è mai stata. Tra i vinti di questa terra disertata resta lui, Andrea, tornato qui da morto, ragazzo di Calabria che si era fatto poliziotto a Milano, ammazzato con 5 colpi di revolver dietro le spalle, a 25 anni.
L’agente Campagna, ricordano freddamente le cronache fu «ucciso al termine del suo turno di servizio, intorno alle 14 del 19 aprile 1979, in un agguato teso in via Modica, alla Barona», periferia operaia di Milano. Freddato «di fronte al portone dell’abitazione della sua fidanzata». Ad attenderlo c’era «un gruppo terroristico». A capeggiarlo era proprio Cesare Battisti, che eseguì personalmente la sentenza di morte.
Campagna «fu raggiunto e colpito alle spalle, mentre si accingeva ad entrare in auto, da cinque colpi di rivoltella» che la stampa riferì essere quelli «di una 357 Magnum calibro 38 corazzato». La successiva rivendicazione dell’omicidio fu siglata dai Proletari Armati per il Comunismo (PAC), di cui Battisti era esponente di punta. Nella rivendicazione si parlò di Campagna come “torturatore di proletari”. In realtà il giovane agente calabrese svolgeva mansioni da autista presso la Digos di Milano.
Fantasmi
In questa storia dalla parte dei vinti, dei senza storia, resta lui Andrea Campagna. La stessa parte di quei padri e di quelle madri povere e diseredate di una Calabria contadina ormai estinta, costretta ma ancora dolente. La madre di Andrea, figura tragica piegata dal crepacuore, lei che sembra intravista, con intorno il suo piccolo mondo di affetti violato dalla sofferenza che si sconta da vivi, era già dentro quei versi di Pasolini del 1968: «la madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli, la casupola tra gli orti con la salvia rossa, in terreni altrui, lottizzati».
Chissà, magari trovasse un giorno un modo, con la voglia e il coraggio di venire fin quaggiù ad affrontare, lei, Battisti, gli occhi o il fantasma di quella donna, madre di una vittima povera, dimenticata e senza giustizia. Andrea Campagna, uno che non ha avuto la sua stessa fortuna, Battisti, questo è certo. Ci provi. Magari anche solo col pensiero, anche da dove si trova adesso, in quella cella del carcere di Parma dove sconta i suoi ergastoli. Lei che è uno scrittore. Provi a scrivere una storia così. Per venire a vedere tra le pagine, fin qui, di persona, lei, Battisti, che oggi non è libero, ma è famoso e scrive noir di successo come Travestito da uomo, pubblicato da Gallimard, che ha amici influenti nel bel mondo come Bernard-Henri Lévy, Fred Vargas, Pennac e Carla Bruni.
Un perdono che non conta più
Provi a immaginare che faccia ha la vecchia mamma calabrese di Andrea Campagna, il ragazzo di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, emigrato per fare il poliziotto (un mestiere da “servo di quello Stato”, che da “comunista armato” lei voleva sovvertire, e ai cui codici e leggi adesso si appella a sua personale tutela), per morire un giorno ammazzato da lei. Tu Battisti, come quegli altri, «eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici».
Furono pallottole e non fiori per Andrea, e gli occhi di quella madre continuano a piangerlo, per sempre. Quegli occhi velati da un dolore che non passa, le ricorderebbero Battisti che si vive o si muore sempre per un sì o per un no. E quel no per Andrea lo ha detto lei.
Lei, Battisti, credo, se la vedrebbe ogni giorno davanti agli occhi, quella vecchia madre, mentre alza la testa per negargli il perdono (che lei neanche le ha mai chiesto); con il cuore che diceva no per il poco di tempo che le restava da vivere, e quel no era tutto quello le restava da dire. E così anche dopo. Finché il silenzio non si porterà nel buio del tempo anche quel suo ultimo, inutile e irrimediato diniego di madre. Un perdono che tanto ormai, se pure ci fosse, non conta più niente.