Qualche anno fa, lungo la strada che conduce a Belsito, piccolo centro del cosentino, sono rimasto sorpreso nel vedere che i bellissimi cipressi posti davanti al cimitero erano stati mozzati a mezza altezza. Molti paesani, recatisi a commemorare i defunti, mi hanno detto che approvavano il taglio delle piante perché sembrava più pulito, gli alberi non nascondevano l’entrata e somigliavano a siepi. Una donna mi ha confessato che avrebbe volentieri sradicato anche i cipressi all’interno del cimitero: in fondo non erano che piante inutili, malate, maleodoranti e tristi.

Sconcertato da queste affermazioni, ho pensato che la mia indignazione fosse legata all’amore che mi lega ai cipressi. Da ragazzo amavo andare al Vallone di Rovito per vedere e respirare il profumo degli alti cipressi che ancora oggi ricordano i patrioti fucilati nel 1844. Mi piacevano quegli alberi e mi aveva colpito la storia di Ciparisso, il bellissimo principe che, dopo aver ucciso per errore il cervo d’oro, aveva chiesto ad Apollo che le sue lacrime scorressero per sempre. Il dio lo trasformò allora, in cipresso, la cui resina scende in gocce simili a lacrime.
Il bello e il brutto
I cipressi di Belsito mi hanno fatto pensare che lo studioso deve essere cauto nei giudizi e mettere in discussione la sua concezione del bello e del brutto. Nei gruppi umani, le strutture del pensiero che organizzano saperi, valori morali e senso estetico sono diverse. Il concetto di bello è presente in tutte le culture, ma cambiano i criteri di valutazione. La bellezza non è nella qualità di ciò che si vede, bensì nella mente che la contempla ed ogni uomo ne percepisce una diversa. Lo studioso deve rispettare le differenze culturali, evitare di cadere nella trappola dell’etnocentrismo che alimenta l’orgoglio per le sue categorie mentali disprezzando quelle degli altri.
Alcaro afferma che la cultura dei calabresi e dei meridionali, a differenza di quella dei settentrionali, ha sempre considerato la natura come oggetto di contemplazione e non come cosa da trasformare. A riprova di ciò, cita l’attenzione nei confronti della natura da parte di studiosi come Campanella e Telesio. Non sono in grado di dire se i calabresi in passato amassero la natura come i due filosofi, sebbene nelle inchieste ministeriali e nei diari dei viaggiatori sullo stato dell’ambiente si legga che avevano disprezzo per il decoro e le bellezze naturali.
La Calabria nei racconti dei viaggiatori
Wey scriveva che la natura aveva donato alla Calabria un territorio salubre e dolce che l’incuria degli uomini e le rivoluzioni politiche l’avevano trasformato in una cloaca infetta, un ambiente malato che condizionava la moralità degli abitanti facendoli diventare «infidi serpenti». Bartels, dal canto suo, annotava che guardando la Calabria si aveva l’impressione che la furia della natura avesse fatto a gara con l’incuria dell’uomo per far precipitare l’infelice paese in una condizione di profonda miseria e abbandono.
Gli stranieri annotavano che i calabresi non avevano il senso della bellezza considerando che avevano distrutto, disperso e svenduto uno dei patrimoni archeologici più grandi del mondo. Avevano smantellato i resti delle grandi polis greche per impiegarne i materiali in nuove costruzioni. Delle quarantaquattro colonne del tempio di Hera Lacinia, edificato all’estrema punta dell’omonimo capo, ne rimaneva una solitaria che sembrava piangere la rovina del sontuoso edificio di cui un tempo faceva parte. Quel tempio, dove le donne di Crotone consacravano ad Hera le loro chiome, era stato demolito al principio del XVI secolo dal vescovo Antonio Lucifero che ne fece riutilizzare i pregiati marmi per la realizzazione di alcuni fabbricati e, soprattutto, del palazzo episcopale della città.

Wey scriveva addolorato che, della repubblica di Locri, patria di poeti, filosofi e legislatori, restava solo qualche rudere: uomini insensibili all’arte, al bello e alla storia avevano utilizzato le colonne per costruire chiese e ville. Gli oggetti rinvenuti dai contadini o dai tombaroli erano acquistati da antiquari e, senza certificato di provenienza, finivano nel mare magnum delle collezioni private o nelle botteghe dei mercanti. A volte gli oggetti d’oro o di piombo venivano fusi.
Tesori perduti
Saint-Non ci informa che i frati cappuccini di un convento avevano liquefatto una medaglia d’oro di oltre un pollice di diametro per acquistare una nuova campana. Nel 1828, a Bollita, nelle vicinanze del castello appartenente al duca Crivelli, annotava Lenormant, un colono aveva trovato in una tomba lamine di piombo con lunghe iscrizioni in caratteri greci che, senza neanche copiarne il testo, furono fuse per fare pallottole da schioppo. L’8 aprile 1865, nel territorio di Santa Eufemia, furono rinvenute un gran numero di monete e magnifici gioielli d’oro di età greca, adorni di figure a sbalzo e ornamenti in filigrana di estrema eleganza e finissima esecuzione di cui si perse ogni traccia.
Nella primavera del 1879, alcune donne che lavavano panni sulla sponda dell’Esaro, a seguito di una frana presso il ponte della strada rotabile, trovarono tra i detriti alcune monete. I mariti, accorsi con le zappe, scavarono e portarono alla luce centinaia di monete d’oro greche contenute in un vaso di terracotta. Anche questo tesoro fu disperso.
Amore del passato e scempi del presente
Gli elementi a nostra disposizione non sono sufficienti per affermare se i calabresi in passato amassero e rispettassero la natura, ma lo scempio recente delle coste, il degrado dei centri storici, il disordine edilizio delle nuove città e l’incuria nei confronti dell’ambiente è sotto gli occhi di tutti. Politici e storici giustificano questo stato di cose come conseguenza del boom economico, dello spopolamento delle campagne, dell’emigrazione verso terre lontane e della dissennata speculazione edilizia.

Il problema non è stabilire le cause di questo disastro, ma capire se esso appare tale alle persone che lo hanno prodotto. Molti abitanti di San Giovanni in Fiore sono orgogliosi dei palazzi incompiuti costruiti a ridosso dell’antico borgo medievale: gli appartamenti sono moderni e ben riscaldati, con bagni e stanze per ogni membro della famiglia. Le nuove strade consentono di arrivare agevolmente in auto davanti al portone di casa ed accedere ai magazzini utilizzati per fare vino, salame e provviste: appare chiaro che a guidare la scelta di quei fabbricati è stato il desiderio di vivere in ambienti spaziosi e comodi.
L’abusivismo ha ucciso il bello
Un giornalista s’indispettì quando gli facemmo notare che il paese era stato sfregiato dallo scempio edilizio e c’invitò a rileggere la descrizione delle case fatta da Douglas agli inizi del Novecento: stamberghe sporche, annerite dal fumo che usciva dalle finestre per la preistorica usanza di cucinare sul pavimento!
Non rimpiangere una triste condizione è giusto, ma quei palazzi anonimi mal si conciliano col paesaggio, sono costruiti su spuntoni dove non si dovrebbe neanche piantare una tenda, hanno finestre murate perché gli edifici non sono mai stati completati.
Quell’impressionante numero di palazzi è stato innalzato violando le leggi dello Stato, senza un piano regolatore e con la complicità di ingegneri, geometri, sindaci, assessori, consiglieri, deputati, soprintendenti e magistrati. Amministratori e politici che si sono avvicendati alla guida del paese hanno sempre sostenuto che è stato un abusivismo di necessità, ma quelle case sono disabitate perché gli emigranti non possono o non vogliono più ritornare. È evidente che l’idea del bello nel paese si è manifestata attraverso il cemento e i mattoni, che l’ostentazione di quei grandi palazzi è più importante del loro valore d’uso!