Lo spot preferito dei calabresi? Continuare a farsi del male

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Il nostro Cordova racconta come anche la collocazione di 46 colonne poste di fronte al mare per esaltare la vocazione turistica di Reggio si sia risolta in una grottesca replica della torre di Pisa. Il vento che sullo stretto sferza il mare e la città l’ha vinta sull’ arte e dopo due anni ha reso pendenti, come la consorella pisana, alcune delle colonne
costate quasi un milione di euro.

L’episodio, per altro prevedibile secondo le leggi basiche della fisica, conferma che la Calabria – o, meglio, le sue istituzioni territoriali – hanno una irriducibile incapacità di valorizzare e promuovere la bellezza della nostra terra. Nel caso reggino ciò si è concretamente materializzato nella sua fisicità precaria. In altri, vorrei dire in tutti gli altri, casi il modo di raccontare e divulgare la nostra bellezza si è risolto quasi sempre nella farsa o nella convenzionalità becera.

Il nome famoso fa eccitare i calabresi

In queste diverse modalità di valorizzare, arricchire e promuovere l’idea del bello e il patrimonio identitario della Calabria ci sono purtroppo delle costanti. La prima è quella di rivolgersi al “nome famoso”, nella convinzione provinciale e quasi sempre non veritiera che lo “straniero” – tale è chiunque non abbia sacri lombi calabresi – sia per definizione più bravo e affidabile. Questo diventa vero se la cernita del nome con etichetta locale viene fatta barando: si sceglie non per accertate migliori e comprovate capacità, ma per compiacere qualcuno che conta nella rete relazionale che ci ostina a considerare patrimonio da custodire pur nella sua ormai cadente vitalità.

I ciucci e le coppole calabresi di Muccino

L’altro elemento di continuità tra le diverse esperienze è lo spreco di denaro pubblico. Si paga 100 ciò che “nel mercato” vale 10. Il caso più recente di spreco colposo di denaro pubblico è quello fatto dalla Regione con il corto di Muccino. Circa 1 milione e mezzo di euro per una macchietta caricaturale sui calabresi con coppole, ciucci e bergamotto di appena 5 minuti con titoli di coda valutati come parte costitutiva del filmato. Forse per pudore il contratto è secretato come la profezia di Fatima.

La provocazione (?) di Oliviero Toscani

Prima della “porcata” di Muccino – la definizione è largamente circolata sulla rete – ci sono stati parecchi altri spot per promuovere la Calabria e i calabresi. Uno lo affidò Loiero alla star di turno, Oliviero Toscani. Il modo per promuovere i calabresi del fotografo celebre per le campagne per Benetton era piuttosto bizzarro. Consisteva in una serie di improperi contro gli stessi calabresi che si voleva presentare con l’abito della domenica. Nel filmato alcuni giovani sono appellati, nell’ordine, terroni, incivili, malavitosi, ultimi della classe. Poi, la confessione finale: «Sì, (purtroppo?, nda) siamo calabresi».

Qualcosa di simile avvenne anni fa con lo strapagato spot commissionato dalle Ferrovie dello Stato ad Adriano Celentano, che apprestandosi a salire in carrozza mostrava un’espressione di incontrollabile disgusto. Un invito di fatto a prendere ogni altro mezzo di trasporto, calesse compreso, a patto che non avesse bisogno di binari.

I tragicomici Bronzi di Riace in fuga

Tornando alle cose di casa nostra, impossibile non citare in questo breve bestiario lo spot dell’era Scopelliti con i due tragicomici Bronzi di Riace in fuga e le loro patetiche battute. Un altro autogoal a caro prezzo. Come spiegare questo ripetuto autolesionismo della Regione Calabria che quando si propone di presentare la nostra terra con il carico di bellezze naturali, di resti di una magnifica storia millenaria, di un popolo ospitale e generoso (che tale resta anche se deve convivere con la violenza criminale della mafia) riesce nel suo contrario, fatto di pregiudizi, luoghi comuni, banalità e cattivo gusto?

Una risposta certa è difficile darla. Ma un consiglio ai committenti di cotanto scempio vale la pena darlo: per favore, statevi fermi, non occupatevi di cose sulle quali siete comprovatamente ignoranti, fatevi gli affari vostri. A patto, beninteso, che il termine “affari” non venga interpretato alla lettera, cedendo ad antiche e non dismesse tentazioni.

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