Ho viaggiato nell’estate grecanica con la voglia di capire e scoprire. Un viaggio di incontri, sorprese, amicizie e sconforti. Vacanze esaltanti e memorabili. Ho ancora negli occhi i bagliori dei fuochi e il cielo dantesco oltre il crinale dei colli che accompagnano al mare la fiumara dell’Amendolea, in una notte di mezzo agosto. Ma ho negli occhi anche le scogliere di Capo Vaticano e il profondo blu di Praia di Fuoco o i ruderi viventi di Roghudi. Bellezze paesistiche e opere dell’uomo si mimetizzano nelle infinite sfumature di verde di una terra che amo fin da quando ero studente.
Rarità potenti, violentate dal triste spettacolo che a tratti, secondo una logica apparentemente gratuita si affaccia, dietro una curva fra gli ulivi, sotto forma di sacchi di plastica sventrati, esplosi in una sequenza horror. Come se la spazzatura segnasse il territorio. Inneschi, mimetizzati da pattume, pronti agli scopi dei fuochi criminali. Così, bellezza e degrado, cultura e incuria, luci e ombre sono stati il leitmotiv del tempo sospeso e meraviglioso delle mie vacanze nella Calabria Ulteriore. Tempo assolato e affascinante, tempo di letture del paesaggio, di meditazioni e di parole leggere, improvvise, ma capaci di arrivare al punto. Tempo di discorsi intorno a un tavolo tra persone appena conosciute.
Il paradiso perduto
La Calabria ci ricorda che l’Eden delle foreste incontaminate, delle acque limpide, delle spiagge aperte ai “naviganti”, il reame incantato dei borghi che ancora conservano il tepore domestico dei modi meridionali dell’abitare e le vestigia di una civiltà che affonda le proprie radici nel tempo immemorabile degli ancestrali, è a rischio. Un rischio grave, concreto, palpabile.
Questo paradiso dello sguardo, che unisce in un inestricabile connubio la natura e la cultura si può trasformare improvvisamente nell’inferno dei boschi carbonizzati. Un’ecatombe arborea di cui porteremo il peso sulla coscienza per anni. Nella desolazione consumistica delle discariche estemporanee. Nel disordine urbanistico si annida un male antico, il male di vivere dell’indifferenza. È come se l’ignavia si fosse impadronita di un territorio lasciato a sé stesso, senza una guida degna di questo nome.
Sventolano i panni stesi dell’abusivismo
La qualità eccelsa del saper costruire nei borghi di Stilo, Badolato, Gerace, Ardore, e in moltissimi altri paesi si scontra con la miseria delle scatole di cemento spuntate non si sa come nelle periferie delle città o lungo i binari della ferrovia. Dove c’erano le pinete a protezione delle colture di bergamotti e di gelsomini adesso sventolano i panni stesi dell’abusivismo.
La cura tenace, assidua degli uliveti e la geometrica perfezione dei giardini di Condufuri e delle vigne di Palizzi si contrappone al caos edilizio degli scali ferroviari lungo il mare, dove la pietra è stata sostituita dal fallimentare sodalizio tra i forati in laterizio e tondino. Tronchi di ferri e mattoni che arpionano l’orizzonte marino facendo sembrare le case relitti di una guerra fra poveri. Scempio che, per la verità, interessa non solo la Calabria, ma che lì fa più male perché il contesto ambientale è invece bellissimo.
Qui non c’è, per così dire, l’attenuante delle periferie delle megalopoli. Lo scenario è mosso, vario, sempre diverso fra poggi e falesie, fiumare e castelli. Mentre nel regno vegetale prevale un ordine antico e sapiente, nei quartieri della speculazione domina l’arbitrio, l’improvvisazione e la prepotenza. L’elenco dei punti in cui le contraddizioni in Calabria sono plateale rischia tuttavia di rispolverare vecchi stereotipi, lamentele sapute e risapute, tic linguistici che coprono, con una coltre di trite doglianze, la ragione profonda di questi sintomi.
Il lume antico e la barbarie
In Calabria, nello stesso luogo, convivono il lume antico di civiltà millenarie e l’ombra della barbarie. Basta parlare con le persone per capire che il tessuto civile è contaminato da qualcosa che non si vede, non appare, ma si percepisce. Una mano invisibile che comanda, ma non si fa stringere, conduce il gioco protetta dal non detto. Dello Stato si parla come di un’entità metafisica, lontana e ostile, forse inesistente. La stessa Unità d’Italia e l’impresa dei Mille – per la verità non senza ragioni storiche – sono oggetto di critiche e sarcasmi.
L’ombra del potere
In ogni dove si aggira lo spettro dell’abbandono e del tradimento. Le istituzioni pare che abbiano lasciato mano libera a un potere invisibile, ma solerte e determinato. Un potere grigio le cui sfumature vanno dal tenue e sfumato clientelismo, fino al grigio piombo della malavita organizzata. Un potere silente, ma onnipresente che condiziona la vita dei cittadini e dunque i loro comportamenti, così il morale si piega allo sconforto. Un’entità sfuggevole, che potremmo chiamare, con un eufemismo, “l’ombra del potere”, oscura i cieli limpidi di questa catena di montagne piantate in mezzo al Mediterraneo.
Un ponte di civiltà verso il sud, al quale la politica dovrebbe prestare estrema attenzione. Ma si sa che la politica politicante cerca il consenso facile. E così il serpente si morde la coda. I voti facili, basati sullo scambio avvelenano la politica. Un corto circuito suicida al quale i politici non badano, presi come sono da logiche di spartizione e di volontà di potenza. Le cronache e le inchieste su questi temi del malaffare di stampo politico sono alla portata di chiunque voglia informarsi.
La guerra delle persone in carne ed ossa
Basta parlare con un imprenditore per venire a sapere che ogni giorno deve scegliere il campo di battaglia: se combattere per l’acqua indispensabile alle colture e deviata per ragioni legate al consenso, oppure difendere la propria azienda da attacchi illegali. Basta parlare con il custode del museo per scoprire che i pochi addetti in servizio sono costretti a turni impossibili, mentre il clientelismo premia l’assenteismo e i musei restano chiusi. Basta guardare il viso di un negoziante in Aspromonte per capire che il rispetto per il cliente che ha di fronte va oltre ben lo zelo commerciale. Basta parlare con un abitante per scoprire che c’è del metodo della seminagione dei rifiuti.
Però poi basta chiedere un’informazione a un passante per scoprire di essere un interlocutore gradito al quale si risponde con un sorriso e una serie di precisazioni e approfondimenti che fanno le veci del più convenzionale e spicciativo “Benvenuto!”. Gentilezza e garbo accompagnano il viaggiatore che, anche nelle località più affollate, non ha mai l’impressione di essere preso all’amo. Se parli con chi ti ospita scopri che l’arte dell’arrangiarsi è teorizzata con enfasi come l’unico modo che l’individuo ha per salvarsi dall’indigenza o dal servaggio.
Una luce nel buio
Che fare dunque? A nulla valgono le lamentazioni, le recriminazioni storiche, le pie illusioni. Per dissipare le ombre di un potere oscuro che uniforma tutto e tutto ammanta con una coltre infida di sospetti, dubbi e rinunce l’unica arma è la verità dei fatti. La denuncia permanente delle malefatte, spiegata ai quattro venti e minuziosamente descritta con dovizia di particolari. Molti alzeranno le spalle, qualcuno si volterà dall’altra parte, altri negheranno l’evidenza, ma i fatti messi nero su bianco resteranno a futura memoria.
Basta luoghi comuni sulla Calabria
Bisogna raccontare la verità non solo ai calabresi, ma anche a tutti gli italiani che troppo spesso parlano della Calabria come figlia di un dio minore. Va raccontata la verità e non la storiella stucchevole e ammiccante dello spot al bergamotto e al peperoncino come armi di seduzione turistica. È profondamente ingiusto blandire o stigmatizzare utilizzando luoghi comuni, bisogna invece scoperchiare i sepolcri imbiancati di chi lucra sulle macerie della convivenza civile. Purtroppo, contro le tenebre non esiste altro rimedio che la luce.
Basta il lume di una candela tenuta accesa da un’intelligenza vigile per metter in crisi l’ombra del potere che si nutre di non detto, di parole a mezza voce, di sguardi sfuggenti e di agguati. Certo ci vuole coraggio e anche astuzia per gridare al mondo che il re è nudo anche qui alle falde dell’Aspromonte che nell’etimo grecanico significa Monte Bianco per nulla aspro o impervio. Non impraticabile dunque ma bianco come le crete che finiscono a mare tra Bova e Palizzi dove i greci attingevano la materia prima per i celebri vasi attici. Parliamo di cultura, di ambiente, di paesaggio per dire che questa terra non è solo una spiaggia, ma un enorme deposito di storia e bellezza tutta da scoprire.
Giuliano Corti
Scrittore e autore di testi per opere multimediali