Più alberi, meno cemento: le città del futuro sono verdi, ma Reggio se n’è accorta?

Gli urbanisti in tutta Europa si riscoprono green per combattere il cambiamento climatico. L'UE stanzia centinaia di milioni per riportare la natura nelle grandi aree metropolitane. Eppure in riva allo Stretto a farla da padrone resta il calcestruzzo

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«Oggi gli spazi esterni sono troppo “minerali” (cementati, ndr). Le superfici costruite e coperte in calcestruzzo producono un’isola di calore attraverso l’assorbimento di energia solare. Questa situazione dovrebbe essere rovesciata togliendo il calcestruzzo e creando un’isola fresca grazie alle superfici alberate».
A parlare è l’architetto paesaggistico belga Bas Smets in un’intervista apparsa su Pianeta 2030 del Corriere della Sera. Di recente il team che guida si è aggiudicato, insieme agli studi GRAU e Neufville-Gayet, il concorso indetto dalla Città di Parigi per riqualificare l’area circostante Notre Dame.

Un giardino per Notre Dame

Lo stesso Smets collabora, per la parte relativa al verde, con lo studio LAN che ha vinto il Concorso di idee per il Grande MAXXI a Roma. La giuria ha scelto il progetto per «il rapporto con il contesto urbano, la presenza di un giardino pensile generoso e accessibile e allo stesso tempo di forte valore architettonico». Per quanto concerne Notre Dame, nel progetto è previsto un piazzale-sagrato circondato da un bosco con cento alberi; un sistema di irrigazione che rinfrescherà la piazza con uno strato d’acqua di 5 millimetri. Una fontana orizzontale, utilizzando l’acqua piovana raccolta, ridurrà la temperatura di parecchi gradi. Insomma, una piccola oasi verde in grado di migliorare il microclima. Tutto ciò entro il 2027, per una spesa di 50 milioni.

L’isola climatica al Grande MAXXI di Roma

Passiamo al Grande MAXXI di Roma, il cui progetto esecutivo sarà completato entro quest’anno. La parte che qui interessa è quella che prevede la cosiddetta rinaturalizzazione dello spazio tutto attorno all’edificio – realizzato su progetto di Zaha Hadid – fino a coinvolgere il quartiere Flaminio. Bas Smets e il suo team hanno proposto una soluzione non solo e non tanto estetica; parchi e giardini e orti produttivi, certo, ma anche la realizzazione di un sistema in grado di «creare un’isola climatica che migliorerà le condizioni di vivibilità dell’area».

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Il progetto dello studio italo-francese LAN, vincitore del concorso internazionale di idee per il Grande MAXXI a Roma

Secondo Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, intervistato da Pianeta 2030 del Corriere della Sera, «Il MAXXI ha grandi superfici in cemento impermeabile completamente esposte a luce solare e nessuna ombra, frutto di una progettazione di un tempo in cui non si immaginava che il riscaldamento globale sarebbe arrivato a cambiare le nostre vite in un tempo così breve. Uno dei problemi fondamentali degli edifici con funzione sociale in città sarà di svilupparsi in un modo che ci aiuti a sfuggire alle ondate di calore».

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Come cambierà l’interno del MAXXI

E ancora: «Bas ha previsto un enorme numero di alberi in grado di ombreggiare e allo stesso tempo raffreddare una grande superficie non solo attraverso l’ombra: gli alberi assorbono acqua e la traspirano attraverso le foglie rinfrescando l’ambiente circostante, con un processo identico a quello dei condizionatori in casa. Con una progettazione adeguata e un uso studiato degli alberi in ambiente urbano si può pensare di ridurre la temperatura in città anche di 7-8 gradi centigradi».

330 milioni di euro per 14 città metropolitane

Perché tratto queste due progettazioni? Scrive la Commissione europea che «la promozione di ecosistemi integri, infrastrutture verdi e soluzioni basate sulla natura dovrebbe essere sistematicamente integrata nella pianificazione urbana, comprensiva di spazi pubblici e infrastrutture, così come nella progettazione degli edifici e delle loro pertinenze».
Il PNRR, dal canto suo, prevede lo stanziamento di 330 milioni di euro per le 14 città metropolitane per «tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano, mediante lo sviluppo di boschi piantando 6 milioni e 600mila alberi».

Reggio Calabria, gli alberi e il cemento

E veniamo alla città di Reggio Calabria. Partendo dalla centralissima Piazza De Nava, adiacente al Museo nazionale della Magna Grecia, proseguendo con il Waterfront, con il Museo del Mare, con l’area parcheggio posta accanto al Cimitero cittadino, con il taglio indiscriminato di alberi in spazi pubblici posti in via Pio XI e accanto all’Istituto d’Arte. Ebbene, in tutti questi casi, cosa ne è dell’impostazione oramai accettata e promossa in tante città europee (ad Arles, in Francia, l’ex area industriale è stata trasformata in un parco cittadino, introducendo 80.000 piante di 140 specie diverse) e della quale i due riportati sono gli esempi più eclatanti? Nulla!

Tutto è figlio dell’improvvisazione, dell’assuefazione ad un modello vecchio. Dice ancora Mancuso: «(Le città) sono state costruite, immaginate, esclusivamente per essere il luogo degli uomini, dove essi vivono e abitano. Una cosa antica, che risale ai primi insediamenti umani, questo dividere, separare con mura e fossati il luogo di vita da una natura percepita come ostile».

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Reggio Calabria, pini ancora sani abbattuti nei pressi del cimitero di Condera per far spazio al cemento (foto Italia Nostra)

Noi continuiamo a costruire case e città alla stessa maniera, anche se oggi non è più la natura ad essere ostile nei nostri confronti, ma noi ad essa. «Dovremmo perciò immaginare città in cui la natura, gli alberi, entrino per permeazione nel tessuto urbano. Oggi la copertura arborea media di una città europea è intorno al 7 o all’8 per cento. Invece dovremmo puntare ad arrivare al 40% di superficie arborea. E non per motivi estetici ecologici ma di pura sopravvivenza; specialmente nelle città italiane che stanno nella cosiddetta area hot spot (si riscalda più in fretta). Se vogliamo continuare a vivere in queste città dovremo per forza di cose immaginare delle soluzioni vegetali».

Alberi o ancora il dio calcestruzzo?

Bisogna, insomma, eliminare l’hardscape (il paesaggio di infrastrutture e cemento) ed allargare il softscape «per aumentare la permeabilità dello strato di terra al fine di immagazzinare l’acqua piovana in loco. Anche il deflusso proveniente dalle piazze e dagli edifici potrebbe essere mantenuto in loco. Nuovi prati e alberi aiuteranno a riportare l’umidità nell’aria e a creare un microclima esterno più fresco».
Gli effetti del cambiamento climatico nelle aree urbane56% della popolazione mondiale adesso, 70% entro il 2050 – li viviamo ormai quotidianamente. L’Istat ha rilevato che nel 2020 nei capoluoghi di regione la temperatura media annua è aumentata di 1,2 gradi rispetto al valore medio del periodo 1971-2000, arrivando a 15,8°.

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Uno scatto da “Cemento amato”, progetto del fotografo Angelo Maggio sul non finito calabrese

Davanti a queste evidenze, e alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dai fondi disponibili, non è più rinviabile un cambiamento di paradigma. Tra l’altro, come possiamo pretendere la preservazione e la non entropizzazione per fini di coltivazione ed altro, ad esempio, della foresta amazzonica, se noi non facciamo la nostra parte?
Non ci possiamo permettere di essere ancora e sempre governati dal dio calcestruzzo. È ormai acclarato che questo modello non regge, rende brutti i nostri centri urbani e ne peggiora la vivibilità. Prendiamone atto, una volta per tutte.

Nino Mallamaci

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