Secondo i dati Istat del 2023 sui fenomeni migratori, sia interni alle regioni italiane sia dall’Italia verso paesi esteri, il tasso di emigrazione più elevato si registra in Calabria. Oltre il 7% dei residenti, nell’ultimo anno, ha abbandonato la regione.
Agosto, però, è il mese dei rientri per le vacanze. Gli emigranti si confrontano con le proprie nostalgie, misurano il benessere che può dare il ritorno alla casa natale. Anche gli aspetti peggiore della propria città di partenza si osservano attraverso un “filtro bellezza”, che ne minimizza i difetti. È successo anche a me e mentre la vocina nostalgica cantilenava nella mia testa mi sono imbattuta nell’articolo di un sito locale che annunciava l’uscita di un nuovo brano a firma Zabatta Staila e Solfamì: Mo.
Era la risposta a quel sentimento nostalgico. L’uso del dialetto, le espressioni idiomatiche e l’ironia sul cosentino medio, i suoi piccoli vizi e le sue manie avevano teletrasportato il lato più comico di Cosenza fin all’altro lato d’Europa.
Tra le varie canzoni, però, una su tutte può essere il manifesto della persona calabrese emigrata: Ohi Ma. È la dichiarazione d’amore di un figlio lontano alla madre rimasta a casa. Oltre i luoghi comuni sul prosciutto spedito assieme ai “pacchi da giù” traspare il disagio che si prova in una città non tua, in cui si parla una lingua che ancora non ti appartiene del tutto e in cui fai fatica a trovare il tuo posto. Ma, oltre quell’inadeguatezza, c’è la speranza di avere la propria occasione e la propria rivalsa. Non importa quale sia il sogno, che sia grande o piccolo: le luci delle altre città ci promettono che una chance possiamo averla, a prescindere da chi siamo.
Da lì l’idea di intervistare la crew cosentina.
Una band così radicata al territorio cosentino dove nasce geograficamente?
«L’embrione è nato a Casali, il quartiere in cui siamo nati. Poi l’idea un po’ più studiata, quindi le maschere e il resto, forse è arrivata a Londra».
Com’è che da Cosenza vi siete ritrovati lì?
«Per quanto riguarda Zabatta – risponde Solfamì – è stato un caso, non è stata una decisione andare lì. Io mi trovavo a Londra per altre cose, poi lui mi ha raggiunto. Dopo un po’ di tempo e un bel po’ di pressing da parte sua abbiamo iniziato. Zabatta aveva già fatto uscire un brano anni prima, per questo ti dico Casali come embrione. Poi, quando ci siamo trovati a Londra, dopo quattro o cinque mesi di convivenza, mi ha proposto di scrivere, fare musica e lavorare al progetto insieme».
«Di base – continua Zabatta –abbiamo sempre avuto la fissazione per la tradizione popolare. Soprattutto io, che ho nel mio background musicale la tarantella. La fissazione per il dialetto, gli accenti, le usanze o i costumi l’abbiamo sempre avuta. Poi, vivendo fuori, inizi a vedere le cose da un altro punto di vista, a riflettere su cose a cui stando qui non pensi. Sembrerà un po’ banale, ma è stato davvero così: lavoravamo da Starbucks e nelle pause scrivevamo le strofe. Tutto parte da una base di Eminem, perché li non avevamo neppure tutti gli strumenti per poter arrangiare. Non c’era nemmeno l’idea di fare delle canzoni una dietro l’altra o un progetto da proporre nei live. L’idea era quella di rimanere nei pixel del computer e fare una canzone ogni sei o sette mesi: buttare la bomba e sparire di nuovo»
Vivendo fuori, quali sono state le differenze culturali maggiori che avete sperimentato?
«Il rapporto con lo sconosciuto: qui fai amicizia in un attimo, lì c’è diffidenza. Ma questo è l’aspetto positivo di Cosenza, poi c’è l’aspetto negativo. Per esempio, l’assenza di opportunità. Questi posti lontani ti danno la possibilità di poterti perdere senza avere l’ansia di non ritrovarti», ci risponde Solfamì.
Una volta tornati, come è nata l’idea di fare dei concerti live?
«Sergio Crocco de La Terra di Piero ci ha chiamati per fare uno spettacolo allo stadio. Noi non lo conoscevamo, conoscevamo l’associazione però non ne facevamo parte. È “colpa” sua se abbiamo formato quella band live, perché ci ha chiamato e ci ha “imposto” di andare a suonare. Da lì siamo entrati a far parte della famiglia de La Terra di Piero».
Qual è il rapporto di Zabatta e Solfamì con la città?
«A Cosenza abbiamo suonato per un Capodanno, tra l’altro come headliner, ma abbiamo dovuto portare i nostri microfoni ed è stata una cosa un po’ così. Non mi pare ci sia gran voglia di chiamarci». A parlare è Solfamì, con Zabatta che ironizza sul fatto che nessuno sia profeta in patria e aggiunge: «La reazione del pubblico, invece, è ottima e si vede che ci vogliono bene fin dall’inizio. L’invito, infatti, è quello di venire ai live perché l’esperienza è totalmente diversa e la risposta del pubblico c’è sempre stata in questo senso».
Sotto le loro maschere di Zabatta e Solfamì, in fondo, si celano storie comuni a quelle di molte persone nate alle nostre latitudini. Racconti di emigrazione, di ritorni, di esperimenti per inventarsi qualcosa e trovare un proprio posto nel mondo. E la consapevolezza che, alla fine, più ci si allontana e più si scopre quanto i nostri posti di origine, nel bene o nel male, ci abbiano plasmato.
Francesca Pignataro