Paolo Orlando, il reggino che sceglie i film che vedrai al cinema

Nato sullo Stretto, laureato all'Unical, oggi è il direttore della distribuzione di un colosso come Medusa Film. La tesi su Kubrick tra i cubi di Arcavacata, le scelte da Oscar, i successi al botteghino, la Calabria come set, le pellicole e gli interpreti su cui scommettere per il futuro

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Il fiuto per i film su cui puntare si è sviluppato in anni di lavoro sul campo, ma è nato probabilmente sulle colline di Arcavacata. Era nella prima generazione di studenti del progetto pilota di un Dams a Sud, tra i cubi dell’Università della Calabria, dove si è laureato con una tesi su Stanley Kubrick.
Paolo Orlando oggi è il direttore della distribuzione di Medusa film e in questa fine anno ha buoni motivi per gioire. Guarda i successi in sala, è continuamente collegato con i report di Cinetel.

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Paolo Orlando

È un “grande giorno” per il cinema italiano. Il film con Aldo, Giovanni e Giacomo, diretto da Massimo Venier, ha festeggiato un magnifico Natale, con un incasso di oltre un milione e 100mila euro nel giorno di Santo Stefano. A firmare la colonna sonora della commedia ambientata sul lago di Como, è il cantautore calabrese Dario Brunori, che già aveva collaborato con il trio in Odio l’estate.
Il box office è da record. Se la partenza è questa, si spera anche in un grande anno del ritorno del pubblico in sala nella post pandemia. Il terreno è già tastato da diversi titoli di questa fine 2022. L’omaggio al teatro di Roberto Andò con il suo La stranezza, la commedia piccante Vicini di casa, il family Il ragazzo e la tigre.

Da Reggio al grande schermo

Paolo Orlando, 52 anni, reggino, nella grande fabbrica italiana del cinema, che ha il suo quartier generale a Roma, lavora dal 2001. Oggi fa parte della rosa ristretta dei manager. Dal 2019 insieme con il vice-presidente e amministratore delegato Giampaolo Letta, condivide scelte e strategie. Visiona quintali di pellicole ed è presente a tanti festival, da quelli più importanti ai cosiddetti minori, le vetrine del cinema che verrà. Da Cannes, Venezia e Berlino a Giffoni e Saturnia.

Anche all’invito del Reggio Calabria film festival ha risposto volentieri. Un buon motivo per tornare a respirare l’aria del mare dello Stretto e per fare visita ai suoi genitori.
Nella città brutia è stato nel febbraio scorso, in occasione dell’anteprima nazionale di un film a lui caro, “Una femmina” del regista cosentino Francesco Costabile, la storia di Rosa la ribelle, l’attrice cariatese Lina Siciliano, che non accetta il clima e la brutalità mafiosa in cui è costretta a crescere.
Ciò che colpisce dei titoli Medusa è la perfetta osmosi tra il cinema più impegnato e i prodotti che possono piacere a un grande pubblico.

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Lina Siciliano sul set di “Una femmina” (foto Francesco Spingola)

Come si sceglie un film?

«Le scelte nascono da un’idea condivisa, a partire dall’amministratore delegato, fino a coinvolgere tutte le varie funzioni aziendali. Medusa ha sempre avuto la costante coesistenza di titoli dall’alto potenziale commerciale, quindi trasversalmente nazionalpopolari, e di tutto ciò che aveva a che fare con un mondo più art house che passava sia per gli esordi del cinema italiano, sia per il consolidamento di grandi autori. Le congiunture degli ultimi dieci anni hanno modificato l’approccio, anche perché il pubblico ha manifestato un’attenzione particolare al prodotto di qualità».

Cosa è cambiato? E come si sceglie un listino Medusa?

«Abbiamo provato a far coesistere quello che più naturalmente ci viene bene, cioè la commedia popolare, con un cinema più ricercato, più impegnato. L’esigenza è, quindi, quella di comporre un listino che sia il più eterogeneo possibile e che vada a intercettare al meglio le tipologie di pubblico È in quest’ottica che nascono film come Perfetti sconosciuti, 2016, oppure film family, un sottogenere della commedia che il cinema italiano non frequentava e che è stato rianimato con Dieci giorni senza mamma (di Alessandro Genovesi, con Fabio De Luigi e Valentina Lodovini, ndr).
Gli esempi più recenti sono la distribuzione di Un altro giro diretto da Thomas Vinterber, Oscar come miglior film straniero, e Nostalgia di Mario Martone con Pierfrancesco Favino, Tommaso Ragno e un bravissimo Francesco Di Leva».

Un decennio di risultati, insomma, prima che il covid fermasse tanti progetti. Un esempio per tutti: La grande bellezza e l’Oscar per il miglior film straniero riconquistato dal cinema italiano.

«Sì, tutta la produzione di Sorrentino fino a Youth è passata da noi. Ma penso anche a Tornatore, a Virzì, a Pupi Avati e ad altri nomi illustri del cinema italiano».

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Paolo Sorrentino con l’Oscar vinto con il suo La grande bellezza

Il tuo primo incontro con il cinema è stato in Calabria. Sei stato allievo di Marcello Walter Bruno, semiologo e critico di “Segno cinema”, uno che con i suoi studenti amava discutere di tutte le forme d’arte. È scomparso lo scorso luglio, ed è stato un dolore per chiunque l’abbia conosciuto, ascoltato, letto. È inevitabile chiederti se il tuo intuito abbia a che fare con questo background.

«L’intuito o sensibilità, io preferisco questa definizione, sicuramente trae le sue origini dal mio percorso di studi ad Arcavacata.
Con Marcello Walter Bruno fu un incontro folgorante. Lui e un altro docente in particolare, Roberto De Gaetano, sono stati gli attizzatori di questa fiamma. Marcello ha avuto il grande merito di proporre un metodo che utilizzo tuttora: il modo che io ho per approcciare un progetto, a partire dalla sua sceneggiatura, è quello di scomporlo. Ed esattamente era questa la maniera di procedere nello studio dei grandi autori italiani come Visconti o del cinema americano, da Coppola fino ad arrivare a Kubrick. Quando l’ho scelto come relatore, lui stava lavorando proprio al suo libro sul regista (un volume cult uscito qualche mese dopo la morte di Kubrick, per la Gremese n.d.r.).

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Warren Clarke, Adrienne Corri, Malcolm McDowell e Stanley Kubrick durante le riprese di Arancia meccanica, 1971

Io ero affascinato dal rapporto di Kubrick con Max Ophüls, il meno conosciuto di tutti i registi teutonici che tra gli anni ’40 e ’50 emigrarono nel cinema americano. Marcello mi aveva suggerito un approfondimento stilistico, ma io sono andato oltre e ho portato avanti una mia tesi, secondo la quale le influenze ophulsiane non riguardavano soltanto la tecnica ma arrivavano alle tematiche. Quindi il mio lavoro aveva questo piano suicida, perché toccare un mostro sacro è da suicida, di dimostrare che Kubrick aveva pescato a piene mani nel cinema del regista tedesco. Ho lavorato per sei mesi notte e giorno ed ero pronto a laurearmi, quando Marcello mi chiese altri tre mesi di approfondimento. Io ero completamente sfinito e non accettai».

Come andò a finire?

«Non bene. In sede di commissione di laurea bocciò la proposta del presidente del Dams di conferirmi la lode. Lui che era il mio relatore. Ecco Marcello era preciso, netto, era trasparente. E anche queste sue qualità sono state un lascito, oltre al metodo di lavoro, a cui cerco di ispirarmi».

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Marcello Walter Bruno

Qual è oggi la tua visione della Calabria? Pensi anche tu che potrebbe essere un set naturale, a cielo aperto?

«Sono nato a Reggio Calabria ma all’età di sette anni sono andato a vivere a Roma, per poi trasferirmi a Cosenza negli ultimi anni di scuola. La mia è sicuramente una visione poco campanilista che non mi impedisce di vedere le grandi potenzialità e insieme i grandissimi sprechi e anche gli scempi che vengono fatti da tutti i punti di vista. È sicuramente vero che negli ultimi tempi si è mosso qualcosa. Con la Calabria film commission sono nati progetti che hanno prodotto risultati importanti. C’è stata tutta una serie di film girati nella regione che hanno guadagnato il panorama nazionale e internazionale, partecipando a festival, riscuotendo premi, ottenendo attenzioni da parte della critica.

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Gianni Amelio al Festival di Venezia

Penso ad Anime nere di Francesco Munzi, tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco e al “mio” Una femmina del regista Francesco Costabile. C’è un nuovo rigurgito di nuovi autori che hanno trovato origine in produzioni locali e, inoltre, non dimentichiamo che uno dei più grandi autori italiani viventi, parlo di Gianni Amelio, è calabrese. Ecco, mi sembra che ci sia più di un elemento per essere fieri. Se poi è un set a cielo aperto bisognerà vedere. La cosa più importante è non disperdere ciò che sinora è stato fatto».

Anche sotto l’ombrellone, quando arrivi in Calabria per trascorrere qualche giorno di vacanza, guardi immagini e sceneggiature. È vero che spesso coinvolgi i tuoi familiari e i tuoi amici nella visione di un trailer, di un cortometraggio divertente, della bozza di un manifesto?

«Sì, spesso, coinvolgo persone a me vicine, ascolto i pareri di amici, familiari e anche di figure target. Per esempio, se deve uscire un film per famiglie, mi capita di mostrare il trailer a un bambino e di chiedergli cosa ne pensa».

Un’attrice, un volto nuovo femminile del cinema, sulla quale punteresti molto?

«Mi fa molto piacere parlare di un’attrice che secondo me ha un potenziale che adesso sta venendo fuori, anche se già da qualche anno era evidente, e che, non vorrei essere blasfemo, ma potrebbe essere una nuova Monica Vitti. È Pilar Fogliati (vista in Forever Young, in Corro da te e nella serie Netflix Odio il Natale, ndr).
È molto giovane ed ha tantissime caratteristiche, riesce ad essere fragile, divertente, quindi comica, ma anche intensa e drammatica. È per queste sue doti che ricorda lo stile Vitti».

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Pilar Fogliati

Quale sarà il film italiano del nuovo anno, il film che lascerà qualcosa di importante nel pubblico, il più amato, il più visto?

«A saperlo! Magari! Posso anticipare alcuni film su cui riponiamo speranze. Uno di questi è Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese tratto dal suo romanzo, un film con un supercast, sulla ricerca della felicità, del motivo per essere felici e che uscirà a fine gennaio. È la storia di una sorta di gestore di anime, Toni Servillo, che offre sette giorni per far ritrovare la forza di vivere a persone che stanno per suicidarsi. È una storia intrigante e interessante. Subito dopo, a febbraio, usciremo con Laggiù qualcuno mi ama, il docufilm di Mario Martone su Massimo Troisi, che proprio nel 2023 avrebbe compiuto settanta anni. È stato realizzato con documenti inediti e testimonianze di colleghi e amici e che tra l’altro vedrò per intero proprio stasera, quando finiremo questa intervista, perché sinora ho visto dei pezzi. Stasera vedrò il film finito».

Cosa ti manca di Reggio Calabria?

«Ciò che mi manca di più in assoluto sono i miei genitori, poi ci sono anche altri affetti, amici, che rivedo sempre volentieri. Una cosa che mi lega moltissimo a Reggio è il mare, perché è qualcosa di ancestrale, che va oltre qualunque deturpamento della realtà. Sì, è anche il mare a mancarmi molto».

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L’Arena dello Stretto a Reggio Calabria

Il mare della Fata Morgana che avvicina le sponde e incanta, culla di reperti riemersi, il mare archeologico che fa venire in mente proprio la testa di Medusa, quella cara a Versace, che inchioda la sguardo, come fa un bel film con il suo pubblico.

 

 

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