Paola Cossu è un cervello in fuga. Da Catanzaro al mondo, sempre alla ricerca di un accrescimento professionale e culturale, sempre in movimento. Paola Cossu è partita dalla Calabria, subito dopo il liceo, perché per seguire il suo percorso era necessario andarsene, come molti figli di questa terra sanno, una scelta obbligata. A Roma si è laureata in Scienze Statistiche. Poi, parallelamente, è diventata AD di Fit Consulting, azienda leader nel settore della mobilità urbana sostenibile, e manager di Paola Turci, artista tra le più originali e coraggiose della musica italiana con quasi 40 anni di carriera. È una calabrese illustre.
Partiamo proprio dalle radici: dove sei nata?
«Sono nata e cresciuta nel centro storico di Catanzaro, in una condizione perfetta: I giardini davanti casa, circondata da giovani come me. Ero una privilegiata, non usavo motorino né mezzi pubblici, avevo tutto lì. Sono nata in un quartiere “bene”: mio padre discendeva da una famiglia nobile di giudici e notai, ma lui era un funzionario Inps e ispettore di vigilanza, mia madre insegnante elementare. Questo mi ha avvantaggiato perché la mia era una famiglia senza pregiudizi, io e mia sorella siamo sempre state estremamente libere in ogni nostra scelta. Sicuramente non era la tipica famiglia del Sud».

C’è un ricordo in particolare che leghi a Catanzaro e alla Calabria?
«Ce ne sono tanti, ma sicuramente quelli più legati alla scuola. Mi piaceva tantissimo studiare, ho fatto il liceo scientifico. Ho avuto anche la fortuna di avere professori molto aperti, leggevamo Repubblica in classe con quello di filosofia, negli anni ’80 non era una cosa banale. Ho imparato dai miei prof giovani a essere uno spirito critico e aperto. Mi piaceva tantissimo, avevo la consapevolezza di essere già molto fortunata. Andavo al cinema, a teatro…».
Un posto del cuore, in Calabria?
«Dal 1975 ho una villetta sul mare, a 20 km dalla mia città. È il mio posto del cuore, rappresenta tutta la mia infanzia, la mia adolescenza, i momenti più belli. Ancora oggi che mio padre non c’è più, l’estate è lì, con mia madre e mia sorella. Arrivo, mi metto gli zoccoli e mi sento libera».
Quando hai iniziato a pensare “in grande” e capire cosa volevi fare?
«Ho fatto poche scelte nella mia vita, ma tutte molto convinte. Quando mi sono diplomata volevo andare via dalla Calabria, non perché non la amassi, ma perché sapevo che per quello che volevo fare io era impossibile restare. L’unica facoltà che non c’era e che era solo a Roma: Scienze Statistiche. Ero obbligata, i miei mi hanno capita. Il primo anno un po’ di ambientamento, poi in casa con altre ragazze, infine ho preso un appartamento con mia sorella. Dopo la laurea, con una tesi super sperimentale sui titoli azionari, con un prof che sceglieva ogni anno uno studente soltanto per fargli fare tesi così. Ero felicissima, ci ho messo un anno e mezzo per finire ed è stato faticosissimo».

E dopo?
«Dopo ho deciso che dovevo cominciare a guadagnare qualcosa e ho cominciato con lezioni private di statistica, matematica finanziaria, redazione di tesi. Quindi ho lavorato per una compagnia di assicurazioni e dopo qualche mese ho incontrato il mio attuale socio. Mi ha proposto di entrare in una società di progetti europei sulla mobilità sostenibile con sede a Orte, disse che c’era da lavorare e da viaggiare tanto. I miei non erano molto convinti, preferivano che rimanessi nelle assicurazioni, ma sono sempre stata allergica all’idea che qualcuno mi dicesse cosa dovevo fare o non fare, è il mio carattere.
Questa mia caparbietà mi ha quindi portato a viaggiare, a imparare bene l’inglese, a scrivere progetti per la Commissione Europea. Dopo tre anni sono diventata socia perché lui mi aveva detto che se avessi raggiunto gli obiettivi stabiliti mi avrebbe regalato una quota. E così dal 3 per cento nel 1998 sono passata a diventare amministratore delegato di Fit Consulting nel 2003. In cinque anni. Avevo 33 anni».
Quali pensi siano le sfide realistiche in questo settore, data l’urgenza del cambiamento climatico?
«Io sto lavorando su diversi piani, due fondamentali. Il primo riguarda una gestione dinamica degli spazi della città per tutti, non possono più essere ad uso esclusivo di una categoria: per la logistica e per il trasporto pubblico. Di giorno uso lo spazio per una cosa, la sera per un altro. Tutte le infrastrutture della città devono essere messe a servizio: mobility hub, cioè spazi dove trovi la fermata del bus, la ricarica elettrica, il car sharing, la bicicletta.
Il secondo riguarda l’e-commerce, che ha cambiato davvero non tanto i processi logistici, ma proprio l’abitudine delle persone: sono diventate compulsive. Il delivery deve diventare più lungo possibile, non è pensabile né sostenibile che la consegna sia per forza in un giorno. Amazon ha voluto soddisfare il singolo cliente nella sua singola necessità. Ma se tu acquisti un bene e lo vuoi domani, hai un impatto forte sull’ambiente, quindi è urgente responsabilizzare il cliente sulla sua scelta di acquisto. Bisogna lavorare sulle persone. L’acquirente ha un potere enorme, così si possono capovolgere i poteri».
A proposito di logistica, cosa pensi del Ponte sullo Stretto?
«È una stronzata. Un programma europeo ha finanziato un ponte grandioso, quello che congiunge Svezia e Danimarca, e quello ha un senso prima di tutto perché non ci sono appalti, subappalti e subappaltini. Secondariamente, lì ci sono le infrastrutture che consentono di gestire la domanda. Ma se tu fai il ponte che arriva a Messina e a Messina non ci sono le infrastrutture che smaltiscono il volume di traffico è una proposta fuori dal mondo. È una megalomania propagandistica e opportunistica. Bisogna creare ferrovie, migliorare le strade, promuovere il turismo».

Come hai incontrato, invece, Paola Turci?
«Nel 1996, tra gli album Una sgommata e via e Volo così. Lei aveva un fan club gestito da un’altra persona che mi ha chiesto di aiutarla. Dall’immediata stima reciproca è nato un affetto grande. Negli anni abbiamo costruito e tenuto viva la passione di tutti i fan che la seguono, cercando di darle continuità. Il mondo della musica è molto difficile: puoi avere il miglior discografico che vuoi, ma devi avere la tua fanbase, le persone che ti amano e comprano i tuoi dischi».
Qual è la qualità che più apprezzi in lei, come persona ancor prima che come artista?
«È una persona fragile e forte allo stesso tempo. Le vuoi bene perché, al di là dell’enorme talento che le ha fatto sempre mantenere un livello artistico alto senza mai scendere a compromessi, Paola è una persona libera. La sua libertà è la sua forza ed è anche la sua generosità: i fan lo avvertono. Ho una grandissima stima di lei. Fare la sua manager richiede tanta attenzione, riuscire a tutelarla e a farle esprimere il meglio. Il suo nuovo progetto teatrale sta andando benissimo, la prima cosa che lei mi ha chiesto è stata il teatro. Sta facendo sold out dappertutto, sarà un grandissimo successo. È lei con le persone davanti, ma non è più la musica. È una cosa diversa. Paola ha tantissimo coraggio, non ha paura. La frase più significativa di questo spettacolo è: “Pensate quello che volete di me: io sono libera”».

Un’ultima domanda, a risposta secca: in cosa la Calabria è imbattibile e in cosa è pessima?
«Il calore, la generosità, l’ospitalità e la simpatia, la genuinità delle persone sono qualità per cui la nostra regione è imbattibile. I calabresi accolgono a braccia aperte, come faceva mio padre. La cosa che invece assolutamente non apprezzo è il vittimismo: è il freno più grande allo sviluppo della nostra terra».