Manfredi Bosco, un cosentino sul tetto d’El Mundo

Per il celebre quotidiano iberico il ristorante Pante in cui lavora è tra i migliori di Madrid. Ha cominciato a fare il cuoco quasi per caso e oggi è uno degli ambasciatori della cucina italiana in Spagna. Una carriera lampo quanto dura, tra lezioni dei grandi chef e clienti vip. Con la Calabria sempre nel piatto

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Manfredi Bosco è uno dei migliori cuochi – «Chef è solo un’etichetta gerarchica in cucina, se mi chiedono cosa faccio nella vita rispondo: il cuoco», ci tiene a precisare – di Madrid. A sostenerlo non è una voce qualsiasi, ma El Mundo, uno dei giornali più importanti di Spagna. Qualche settimana fa, nella sezione gastronomia, ha dedicato a questo cosentino, da qualche anno presidente dell’Associazione cuochi Italiani in Spagna – un lungo articolo. Il calabrese che voleva fare il diplomatico ed è finito a guidare uno dei ristoranti italiani – si chiama Pante – più interessanti della capitale iberica, lo ha definito Luis Blanco. Un traguardo niente male per uno che ha iniziato per caso a pensare di fare il cuoco una ventina o poco più d’anni fa: prestigio a parte, El Mundo ha il sito europeo di informazione in lingua spagnola più letto che ci sia.

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L’ingresso del ristorante madrileno

Per una volta, però, un piccolo giornale calabrese ha almeno un vantaggio su un colosso dell’editoria internazionale: Manfredi Bosco è stato mio compagno di classe alle superiori e mio coinquilino all’università. Che volesse fare il diplomatico dopo la maturità non lo ricordo. In compenso, ricordo che da lui negli anni del liceo si facevano mangiate formidabili. Merito di Francesco, suo padre: arrivava a casa con prodotti presi da questo o quel contadino durante i suoi giri di lavoro. Gestiva con alcuni parenti una ditta di liquori – erano loro a produrre l’Amaro Silano Bosco o l’Anice Bosco fino agli anni ’90, più o meno – e si occupava spesso della distribuzione, per cui viaggiava parecchio. E poi era cintura nera di pasta e patate ara tijeddra e abbastanza eretico (e bravo) tra i fornelli da preparare un delizioso morzello catanzarese nel cuore di Cosenza.

Il tuo primo maestro, quello che ti ha trasmesso la passione per la cucina, è stato lui?

«Più che per la cucina, per i sapori, per i prodotti del territorio. Però a fare il cuoco non avevo mai pensato: niente alberghiera, ma liceo classico, poi Scienze politiche a Roma. Non avevo le idee molto chiare sul futuro quando ci siamo iscritti alla Sapienza, diciamo così, però mi piaceva l’idea di viaggiare per lavoro. Tant’è che la mia carriera poi è nata proprio per quello».

In che senso?

«Ho preso un volo per Londra, volevo imparare bene la lingua con un corso intensivo di qualche mese. Londra è cara, difficile mantenersi, e io parlavo poco e male l’inglese. La soluzione più semplice mi è sembrata chiedere un lavoretto in qualche ristorante italiano. Ho cominciato come lavapiatti, poi hanno visto che – anche se ero un principiante – me la cavavo tra i fornelli. Dopo un paio di mesi sono diventato aiuto cuoco. E mi sono reso conto che, oltre a guadagnare soldi miei per la prima volta, mi piaceva stare in cucina per mestiere.

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Il Big Ben, simbolo di Londra

Poi lavorare in Inghilterra è tutta un’altra storia, capisci come dovrebbero davvero andare le cose. Lì non ci sono nero o straordinari non retribuiti, ci sono regole e si rispettano. Se ci pensi, pur facendo il lavapiatti, riuscivo a pagarmi una stanza in una delle città più costose del mondo. Certo, quando lavori in un ristorante per il cibo a casa non spendi quasi nulla, però…».

Se stavi così bene, perché tornartene in Italia allora?

«Era il 2001, poco dopo l’11 settembre, e i miei avevano il terrore che il prossimo attentato potesse essere a Londra. Pur di convincermi a tornare mi hanno aiutato a entrare nelle cucine del Four Season, un grande albergo di Milano, per uno stage. E lì mi hanno distrutto, non avevo ancora visto come e quanto si lavora in una cucina di veri professionisti. Mi sono reso conto che non sapevo nulla e non è stato semplice. Ti faccio un esempio banale: tu magari puoi credere che tua mamma prepari una besciamella buonissima e segui la sua ricetta, ma in un posto del genere mica puoi servirne una preparata come la fa lei.

 

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L’Hotel Four Season di Milano

La cucina è fatta di sapori e ingredienti, ma anche di tecniche per valorizzarli e io ho dovuto impararle da zero. Ho capito pure quanto fosse duro e usurante fare il cuoco, però continuava a piacermi sempre di più. E, dopo le prime difficoltà, imparavo in fretta: a fine stage, con l’estate ormai alle porte, lo chef ha suggerito il mio nome a un collega per la sua brigata, nel mondo dell’hôtellerie funziona spesso così a seconda delle stagioni. Era il mio primo lavoro in Italia, al Palace Hotel di Capri, come cuoco capo partita. Mi occupavo della carne e di varie salse, più qualche turno notturno per il servizio in camera».

Me lo ricordo eccome: una notte hai chiamato a casa nostra a Roma per dirci che avevi appena preparato una frittata a Brian May dei Queen!

«Spaghetti e vongole prima, omelette poi, aveva fame. Era arrivato in elicottero, poverino… però non l’ho incontrato, peccato: nell’alta hospitality la riservatezza del cliente è sacra».

Per uno che due anni prima lavava i piatti mi pare comunque un bel passo avanti, no?

«Beh, sì, però a Capri è stato davvero un massacro, il Four Season era una passeggiata in confronto. Lì ero una stagista, qui avevo più responsabilità e, in sostanza, ancora nessuna esperienza. Ho visto cosa significhino davvero le gerarchie nelle cucine di un certo livello. Lo chef era Oliver Glowig, un grandissimo che ha conquistato diverse stelle Michelin negli anni; il suo secondo all’inizio mi trattava come uno schiavo, poi però dopo qualche settimana mi ha aperto casa sua: anche quello mi ha fatto capire che la mia strada era in cucina».

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Oliver Glowig e Manfredi Bosco in una foto scattata qualche anno dopo l’esperienza insieme a Capri

Finita l’estate sei tornato a Roma…

«Sì, un lavoro ai Parioli. Gran ristorante, tra i clienti, per dirti, c’era Jack Nicholson quando veniva in Italia. Mi occupavo del pesce stavolta. E poi c’era un collega napoletano che mi ha insegnato tutto sulla pasta. Quando si parla di pasta non esistono maestri migliori dei napoletani, fidati».

E perché sei andato via da lì?

«Un’offerta migliore. Una famiglia storica della ristorazione romana aveva deciso di puntare sull’alta cucina con un piccolo ristorante dietro piazza Navona e ho deciso di lavorare da loro. Però le cose non sono andate granché bene, erano altri tempi. C’era attenzione verso questo mondo in Italia, ci mancherebbe, ma non come adesso. Roma non era ancora “pronta” per questo tipo di cucina».

Sei pure scappato, letteralmente, da quel ristorante…

«Vero, te l’ho detto che il cuoco è un mestiere duro e usurante, sono andato in tilt. Nello stesso periodo papà, che aveva venduto la ditta poco tempo prima, mi ha detto che avremmo potuto rimetterci a fare i liquori insieme, io e lui. Era il mio sogno da bambino che si avverava: la ditta quando ero piccolo era sotto casa mia, con tutti quegli alambicchi, bellissima. Così me ne sono tornato in Calabria».

E dalle ceneri dell’Amaro Bosco è nato l’Amaro Manfredi, con cui tu da tempo però non hai più nulla a che vedere. E la cucina?

«Mai abbandonata del tutto. Ho iniziato a organizzare eventi gastronomici per promuovere i prodotti del territorio, collaborato con aziende locali. Convincere i calabresi a fidarsi dei prodotti della loro terra era quasi più difficile di vendergli i liquori. Non posso nemmeno dar loro torto, di recente sono stato a Cosenza e dal fruttivendolo c’erano delle patate terribili: ma come, con la Sila a due passi, non hai patate buone? Dal punto di vista della cultura gastronomica siamo molto indietro ancora; ricordo che molti macellai avevano carne bovina ben frollata solo perché non riuscivano a venderla prima, assurdo. Se penso alla cura degli spagnoli nell’allevamento dei maiali il confronto è impietoso, il Nero di Calabria ha più pregi che mercato»

Hai fatto pure qualcosina per la televisione, ricordo un programma con Mengacci. Che ne pensi della cucina in tv e dei cuochi nello show business?

«Tutto il male possibile. No, dai, qualcosa di positivo c’è: è un modo per dare visibilità a un mestiere a lungo non valorizzato quanto meriterebbe, come succede invece in Francia, e per far conoscere i sapori di un luogo. Ma c’è l’altra faccia della medaglia: oggi, su 50 curricula che arrivano in un ristorante, 40 sono di gente che fa i suoi piatti per Instagram o ha partecipato a una mezza puntata di Masterchef. Qualcuno ha anche talento, ma quasi tutti scappano dopo aver visto come si lavora in una vera cucina. I professionisti con una formazione alle spalle magari non trovano posto, invece. E un’offerta così alta di manodopera ha fatto crollare le retribuzioni in cucina per tutti.

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Manfredi Bosco prima di prendere servizio nel ristorante sardo di Gordon Ramsay

Anche io ho iniziato dal nulla, ci mancherebbe, però l’ho fatto dentro una cucina, non sui social o in un talent show. E comunque, a parte tutto, in tv non funzionavo proprio. Troppo riservato, ho fatto giusto qualche puntata di Ricette all’Italiana: mi piace stare ai fornelli, non davanti a una telecamera».

Però hai lavorato anche con due star della Tv come Carlo Cracco e Gordon Ramsay, che tipi sono?

«Ramsay non l’ho conosciuto di persona, lavoravo in un suo ristorante al Forte Village ma non c’era mai. Anche con Cracco ho lavorato in Sardegna, veniva due volte a settimana: un professionista pazzesco, non posso che parlarne bene. E che puoi dire di male su uno che era chef a Montecarlo al Le Luis XV di Alain Ducasse, dove un genio come Massimo Bottura era solo uno dei tanti in brigata? Lo guardi lavorare e provi a imparare il possibile».

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Manfredi Bosco e Carlo Cracco

In Spagna, invece, come e quando sei arrivato?

«Una decina di anni fa, ceduta la ditta di liquori. Avevo qualche contatto lì e sono andato a studiare un po’ la loro ristorazione. Poco dopo ho iniziato a lavorare al +39, come il prefisso dell’Italia, il primo ristorante calabrese di Madrid. Tra i soci c’era anche Matías Verón, l’ex calciatore della Reggina. Ho vinto un concorso – Madrid Fusión, una kermesse gastronomica che si ripete ogni anno e pone al centro dell’attenzione cuochi e tecniche di cucina – ed è partito anche il mio lavoro con l’Associazione dei Cuochi Italiani in Spagna. Organizziamo show cooking, eventi pubblici e iniziative nelle scuole per far conoscere i prodotti nostrani, il modo di prepararli, l’importanza della dieta mediterranea».

Su El Mundo, però, sei finito grazie a un altro ristorante, Pante

«Ci lavoro da quattro anni ormai. Facciamo cucina italiana, in particolare di Pantelleria, ma ho voluto che nel menu ci fosse sempre anche un po’ di Calabria. Il peperoncino, innanzitutto, ma anche le cipolle di Tropea, la ‘nduja, i fichi dottati.
Tra i nostri clienti ci sono Carlo Ancelotti, un mio mito da adolescente come Raul, Diego Simeone. Il Cholo, quando ha saputo che ero di Cosenza, mi ha parlato della città: ricordava di esserci stato quando giocava nel Pisa in serie B, anche se aveva dovuto saltare la partita per infortunio».

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Manfredi Bosco completa uno dei suoi piatti al Pante di Madrid

Derby al ristorante… tu sei merengue o colchonero?

«Juventino (ride). Però dopo tanti anni mi sento anche castigliano, è una terra meravigliosa e accogliente da cui difficilmente andrei via a meno di offerte irrinunciabili. Qui c’è un detto, “Se vivi a Madrid, sei di Madrid”, ed è davvero così»

Hai puntato sulla tradizione – non locale, tra l’altro – nel Paese che negli ultimi anni è stato più all’avanguardia nel mondo della cucina. La tentazione di seguire quel filone non l’hai mai avuta?

«Sinceramente no. Ho un immenso rispetto per cuochi come David Muñoz e per il successo del suo ristorante al World’s 50 Best Restaurant così come per l’Osteria francescana di Bottura (vincitore in precedenza del prestigioso riconoscimento, nda), ma perché so quanto abbiano lavorato duramente prima di arrivare lì, passando prima dalla ristorazione più tradizionale.
Io però in un ristorante, anche il migliore del mondo, dove una cena dura 4 ore non andrei, non è il genere di esperienza che mi attira. La vedo così: il cliente da Manfredi Bosco viene per mangiare bene e quando va via deve pensare al piatto che gli ho servito come a quelli che gli preparavano sua mamma o sua nonna, rivivere quelle sensazioni. Non è semplice, specie in un paese straniero che non conosce davvero la tua tradizione, ma se ci riesco ho raggiunto il mio obiettivo».

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