«In Italia il mondo criminale non si è mosso mai lontano dal mondo delle élite. Il suo successo sta soprattutto in questo aspetto: mai essere lontani e contrapposti alle élite. E, il mondo criminale, non ha mai avuto il monopolio dell’illegalità. In Italia l’illegalità è una cosa frequentata assiduamente dalle classi dirigenti, che hanno sempre pensato di poter ottenere dei risultati più al di fuori della legge che dentro la legge. Hanno ritenuto, cioè, che l’illegalità fosse un loro campo di appartenenza. E quando lo hanno dovuto, in qualche modo, dividere con altri hanno accettato questa condizione. Non hanno fatto neanche una battaglia per averne il monopolio».
Isaia Sales continua ad essere tra i più attenti analisti dei fenomeni criminali nelle regioni meridionali. Dopo la laurea in Filosofia, ha iniziato la sua vita pubblica come collaboratore de l’Unità. È stato poi dirigente del PCI e, in seguito, dei DS, segnalandosi come uno dei politici più impegnati nella lotta alla camorra. A questo tema era dedicato il suo primo libro – La camorra, le camorre – nel 1988.
Con lui analizziamo quali siano stati i rapporti delle mafie con le classi dirigenti, le massonerie, la società meridionale. E quali siano i mutamenti in corso e le ragioni che hanno reso ‘ndrangheta e camorra più pericolose di Cosa Nostra. Ne viene fuori un quadro dell’inquinamento civile e politico che sta alla base del potere criminale, ormai non più radicato solo nel Sud Italia ed avviato ad una crescente globalizzazione.
Quali sono le origini della criminalità organizzata nel Mezzogiorno?
«Penso che le mafie, così come le conosciamo, abbiano inizio nella prima parte dell’Ottocento, quando le sette segrete arrivano nel regno borbonico e negli altri stati pre-unitari dietro le truppe napoleoniche. È nelle carceri che si incontrano i delinquenti disorganizzati e gli aristocratici borghesi, organizzati, oppositori del sistema politico. Dalla disorganizzazione della criminalità e dall’organizzazione dell’opposizione politica nascono le mafie. La massoneria e la carboneria forniscono il modello organizzativo alle mafie».
Come si inserisce la violenza in questo scenario?
«Le mafie nobilitano la violenza allo stesso modo delle sette segrete. La violenza è necessaria in quella fase storica per abbattere i poteri assolutistici. Le mafie ne fanno un modello, prendendosi tutto l’armamentario della massoneria, compreso l’uso della violenza come strategia di potere o di contrapposizione al potere costituito.
Questa operazione è impressionante per come avviene e per le similitudini che hanno le sette segrete con i primi statuti che noi conosciamo delle mafie, in maniera particolare della Camorra napoletana. È in questa ritualizzazione delle violenza che sta il segreto storico del successo delle mafie. Si può dire che tramite la massoneria l’onorabilità della violenza compie il suo tragitto: la violenza non è una cosa di cui vergognarsi, che ti isola o allontana, ma può avere tutti i presupposti dell’onore. Tra questi, l’obbedienza».
Esistono radici sociali della criminalità meridionale?
«Nell’Ottocento le “classi pericolose” avevano la stessa pervasività e pericolosità a Parigi, Londra, Napoli e Palermo. La differenza è che a Londra e Parigi la criminalità si organizzò attorno ai mendicanti, che non ritualizzarono la violenza. Lì ci fu una distanza netta tra le due classi. La storia delle mafie italiane e quella del Paese, invece, sono costellate da casi di intreccio tra classi dirigenti e classi pericolose».
Perché l’omertà ha svolto da sempre una funzione centrale?
«C’è stato anche un grande dibattito storico attorno al concetto di omertà, con una grandissima confusione operata in Sicilia. L’etnologo Pitrè la usò in un processo nei confronti di un personaggio importante dell’epoca, il parlamentare Palizzolo, accusato di essere il mandante del delitto Notarbartolo. Invitato a deporre in tribunale, alla domanda “cos’è la mafia?” rispose che era un comportamento e non un’organizzazione. “Mafioso è, in alcuni quartieri palermitani, essere di bell’aspetto”. E poi disse “vedete, la stessa parola omertà viene da “ominità”, viene dal considerarsi “uomo”. Uomo è colui che risolve le questioni di giustizia da solo, senza ricorrere alle autorità”.
Ma Pitrè commise un errore gravissimo, perché omertà deriva da umiltà, che in napoletano diventa “umirtà”. E infatti la camorra si chiama bella società riformata o società dell’umirtà. Una delle regole delle società segrete è la totale obbedienza, ed è normale nelle società segrete richiedere l’obbedienza.
Teniamo conto che nel concetto di onore che i mafiosi prendono dalle classi dirigenti c’è sia onore come guadagno senza fatica (che era tipico degli spagnoli), ovvero è onorato colui che può disporre di ricchezza senza averla prodotta con le sue mani, sia un’altra idea di onore: è onorato colui a cui si dà obbedienza, perché l’obbedienza è una forma, uno strumento dell’onore».
I riti del giuramento della ‘ndrangheta assumono un’identità autonoma?
«I riti di giuramento – e quelli della ‘ndrangheta meriterebbero libri e libri di approfondimenti – andrebbero studiati permanentemente dall’antropologia italiana. Attraverso essi si manifesta pienamente l’idea che l’obbedienza alla setta segreta è una delle massime espressioni dell’onorabilità. La camorra ha gli stessi riti di quella ottocentesca: nella camorra esiste la società maggiore e la società minore, cosa tipica della massoneria.
Nella ‘ndrangheta, invece, nel giuramento esiste il dialogo, chi vuole aderire deve rispondere ad alcune domande interlocutorie: lo stesso meccanismo di domanda e risposta che si fa nella massoneria. Aggiungiamoci i caratteri mutualistici e solidaristici che hanno le mafie, anche essi copiati dalla massoneria. All’inizio, per esempio, la mafia siciliana si articolava in “fratellanze”. Si pagava una quota per entrare che serviva nei momenti di necessità: un welfare criminale per soccorrersi nelle difficoltà. Le relazioni sono fondamenti per aiutarsi, sia nella visione massonica che in quella mafiosa.
Come si articola la struttura del potere criminale nel Mezzogiorno?
«Le mafie, all’inizio, sono “scimmie” delle classi dirigenti, copiandone il modello di successo. Il percorso di questi due poteri non è lineare, perché inizialmente copiano il modello, ma le relazioni non sono permanenti perché le mafie incontrano le classi dirigenti anche al di fuori della massoneria. Non hanno bisogno di questo rapporto particolare, ma ne copiano il metodo: stare insieme, ritualizzare la violenza, stabilire relazioni privilegiate. È proprio questo aspetto che cambia radicalmente le mafie italiane rispetto al tradizionale crimine organizzato urbano, che pure esisteva in altre città europee.
Man mano che le mafie hanno contezza di un potere, e con l’inizio di una prima repressione dello Stato italiano, gli incontri di classi dirigenti e classi pericolose hanno avuto necessità della segretezza. Nella storia della ‘ndrangheta tutto ciò è importantissimo, perché siamo di fronte ad un caso unico: una delle criminalità più trascurate e fuori dall’obiettivo della pubblica opinione che, in pochi decenni, diventa una delle più potenti al mondo».
Attraverso quali meccanismi si è determinato il successo della ‘ndrangheta?
«A proposito della lunga presenza della ‘ndrangheta, non dimentichiamoci che nel 1869 il primo scioglimento di consiglio comunale in Italia per infiltrazione della criminalità avviene a Reggio Calabria. Nei primi lavori della ferrovia tirrenica la ‘ndrangheta c’entra. Qual è la confusione? La ‘ndrangheta aveva un altro nome: Camorra reggina o Camorra calabrese. Essa aveva preso più delle altre mafie le modalità di giuramento della camorra napoletana. Ma il termine specifico di criminalità autoctona si scopre, forse, nel secondo dopoguerra, perché prima il nome con cui sarà conosciuta la ‘ndrangheta è camorra».
Qual è il primo punto di svolta nella storia recente della ‘ndrangheta?
«La ‘ndrangheta si troverà negli anni ‘60 al di fuori della storia italiana sia per ragioni geografiche che geoeconomiche, per problemi di scarsa accumulazione e scarse relazioni. La classe dirigente calabrese conta meno di quella napoletana o di quella siciliana nelle dinamiche dello Stato italiano. Quindi gli affari che si possono fare in Calabria non sono equiparabili a quelli che si possono fare nelle altre regioni.
La ‘ndrangheta inventa una forma di accumulazione del denaro che non è consona alle altre mafie. Si tratta dei sequestri di persona, dettati dalla necessità di una rapidissima accumulazione di denaro che possa permettere di partecipare agli affari. Poi ci sono due opportunità che riportano la Calabria nel circuito nazionale: la costruzione della Salerno-Reggio Calabria (e poi il suo ammodernamento) e quella del quinto centro siderurgico, che non si utilizzerà mai dopo la sua costruzione».
Come è stato costruito il sistema delle relazioni della ‘ndrangheta?
«Vengono cambiate le vecchie tradizioni. Per uno ‘ndranghetista una doppia affiliazione è fuori dal proprio orizzonte: la doppia fedeltà è inconcepibile per i vecchi capi della ‘ndrangheta. De Stefano fa fuori contemporaneamente tre capi: Macrì, Nirta e Tripodo. Con questo gesto ha possibilità di rompere con il vecchio mondo e di aprire strade nuove. E per farlo deve mantenere il massimo della segretezza possibile.
Nasce una struttura inusuale dentro la storia della mafia: una terza organizzazione, in bilico tra mafia e massoneria, che si chiamerà la Santa. Ha relazioni così delicate che neanche tutti gli aderenti alla ‘ndrangheta vi possono partecipare ed esserne perfino a conoscenza. Inizialmente saranno solo 33 coloro che ne potranno far parte, poi inizierà un’inflazione di queste presenze».
Quali funzioni svolge la Santa?
«Nella storia d’Italia, dove si intrecciano reti illegali, criminali, politiche, affaristiche, sono fondamentali gli “incroci”. Ecco, la Santa è uno di questi crocevia. È un’organizzazione di relazioni, perché il circuito delle influenze e delle conoscenze, in Italia, è più efficace del talento individuale. Le conoscenze e le relazioni stabiliscono un capitale che nessun merito personale può sostituire».
C’è qualche legame con il concetto di clientela?
«In qualche modo potremmo spiegare così anche il fenomeno della clientela. Ma saremmo fuori strada se la riducessimo soltanto a qualcosa di spregiativo e non a qualcosa di utile. Dobbiamo invece parlare di traffico di relazioni, di commercio di relazioni, di capitale di relazioni: una persona non potrà mai essere influente se non è in possesso di un circuito di relazioni. Oggi chiameremmo la clientela “traffico di influenze”.
Questo consente alla massoneria come alla ‘ndrangheta di avere tre tipi di relazioni: con il mondo politico, con quello imprenditoriale, con la magistratura e gli avvocati. Quest’ultimo tipo è fondamentale per l’onore mafioso, che consiste nel fatto di non essere sottoposto all’ingiuria della legge. Tutti sanno che sono un criminale, ma nessuno mi può mettere in galera; e se mi mettono in galera, sono in grado di uscirne».
L’impunità è una chiave di rafforzamento del potere criminale?
«È proprio l’impunità il massimo dell’onore mafioso, perché tutti devono sapere chi sono, la violenza che posso esercitare, ma nessuno mi può prendere e mettere dentro. Ed è l’impunità il grande capitale che i mafiosi contrattano nelle relazioni, allo stesso livello dei rapporti politici o imprenditoriali che servono per fare affari.
Questo è un perno fondamentale: la massoneria è in grado di offrire tutte e tre queste relazioni.
Non dimentichiamo mai che nella storia del successo delle mafie in Italia c’è il fatto che la magistratura è stata fino in fondo parte degli interessi delle classi dirigenti. Solo con la scuola di massa si è rotta questa continuità e contiguità storica, permettendo l’ingresso in magistratura di altri ceti. Questo ha consentito un ricambio fondamentale ai fini della repressione del fenomeno. Tutto questo si verifica tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del Novecento. È l’impunità la chiave del successo dei mafiosi a garantirla era, in gran parte, la magistratura.
Può fare un esempio a riguardo?
Ricordo il discorso funebre del capo dei magistrati italiani, primo presidente della Corte D’Appello, Giuseppe Lo Schiavo, in onore di Calogero Vizzini. Già che il capo dei magistrati italiani tributi onori al capo della mafia è incredibile. Ma se lo si fa poi sulla rivista giuridica Processi, nel 1955, risulta tutto ancora più incredibile. Lo Schiavo era colui che aveva scritto Un giorno in Pretura, da cui Pietro Germi aveva tratto poi In nome della legge, uno dei film più ambigui sulla mafia, in cui si vede che il capomafia consegna l’assassino nelle mani del giovane pretore.
In quell’occasione dice: “È morto il capo della mafia Calogero Vizzini, si è sempre detto che la mafia è contro lo stato, contro le istituzioni e contro i rappresentanti della legge; io posso affermare che mai la mafia è stata contro lo stato, contro le istituzioni e men che mai contro i rappresentanti della legge, anzi in diversi momenti storici ha aiutato la legge a venire a capo di delitti che altrimenti non avremmo scoperto”. Aggiunge inoltre: “Già si conosce il nome del suo successore, mi auguro che possa continuare sulla strada del suo predecessore“».
La violenza, l’omertà e le relazioni sono le chiavi interpretative del modello criminale?
«Il potere dei mafiosi in Italia non è dovuto in modo esclusivo alla loro violenza, ma al fatto che questa violenza è stata riconosciuta e legittimata da altri poteri ed esercitata senza concreta repressione. La storia delle mafie, quindi, è una storia di integrazione della violenza popolare dentro le strategie delle classi dirigenti. E in questa storia di integrazione bisogna andare a leggere e analizzare tutti i crocevia di queste relazioni.
La massoneria, non tutta, ha rappresentato uno di questi. Se non analizziamo questi crocevia non potremo mai comprendere la storia dell’Italia. Se esistono dei luoghi in cui si organizzano le influenze, o si riescono ad aumentarle attraverso un potere occulto, prima o poi questo meccanismo non potrà che portare sulla scena del potere anche le mafie, che hanno uno straordinario bisogno di relazioni.
La storia del rapporto massoneria-mafia è la sintesi dell’opacità del potere in Italia. L’opacità del potere ha permesso tante forme illegali e la mafia è una di queste, ma le classi dirigenti non hanno mai consentito ai criminali di essere gli unici monopolisti dell’illegalità. Anzi, l’hanno condivisa, l’hanno accettata, hanno stabilito delle modalità per servirsene, non l’hanno mai combattuta né al tempo stesso hanno accettato che i mafiosi fossero gli unici a utilizzarla. In questo atteggiamento c’è continuità nella storia italiana».
Conta più sfuggire alla legge?
«È stato affermato dalle classi dirigenti, fino ad una diffusione di massa, questo assunto: la legge dà potere quando la eserciti, ma dà più potere quando la raggiri. Ecco, da questo punto di vista penso che i mafiosi abbiano imparato dalle classi dirigenti. E le classi dirigenti hanno accettato la mafia come parte di quel mondo oscuro, opaco, con cui hanno costruito grandi architetture».
Quali crocevia abbiamo conosciuto nei recenti decenni?
«Nel mondo delle mafie si sono manifestate alcune novità dirompenti nel corso degli ultimi decenni. La prima ha che fare con il cambio di gerarchie nel mondo mafioso. Dalla seconda metà degli anni Novanta le ‘ndrine calabresi e le camorre napoletane (e casertane) hanno scalzato Cosa nostra siciliana dal ruolo di leader rivestito dal secondo dopoguerra fino alla cattura di Totò Riina.
E nessuna istituzione di contrasto alle mafie aveva mai avanzato una previsione del genere, nessuno studioso della materia aveva ritenuto possibile una scalata simile. Tutte le previsioni in materia si sono rivelate, dunque, sbagliate. La camorra la si dava per finita alla fine degli anni sessanta quando tutta l’attenzione era catturata dalla mafia siciliana, la ‘ndrangheta non era neanche conosciuta con il nome attuale e la si riteneva una criminalità assolutamente secondaria».
Perché la mafia siciliana è stata maggiormente oggetto di studio e di analisi?
«Fino a qualche decennio fa gli esperti non concedevano “dignità” di studio né alla ‘ndrangheta e né alla camorra. Non corrispondevano ai canoni della “mafiosità” modellati sulle caratteristiche di Cosa nostra. Le Commissioni parlamentari antimafia cominciarono ad occuparsi delle altre “consorelle” mafiose solo a partire dagli anni ’90 con una organica relazione sulla camorra del presidente Luciano Violante nel 1993. Mentre bisognerà aspettare il 2008 per una specifica relazione sulla ‘ndrangheta da parte del presidente Francesco Forgione.
La prima Commissione parlamentare antimafia non si occupò affatto di camorra, né tantomeno di ‘ndrangheta. Riteneva che i fenomeni criminali di tipo mafioso coincidessero quasi esclusivamente con la mafia siciliana. Con difficoltà fu inserito il termine camorra nel testo che nel settembre 1982 introdusse il reato mafioso in base all’art. 416 bis del codice penale (dopo il delitto del generale dalla Chiesa, prefetto di Palermo);,
Solo nel marzo 2010 la parola ‘ndrangheta viene espressamente introdotta nell’articolo 416 bis (Associazione di stampo mafioso). E solo nel 2016 la Cassazione ne ha riconosciuto l’unitarietà in una sentenza del 17 giugno. “La ’ndrangheta è una mafia cresciuta nel silenzio”, ha sintetizzato Nicola Gratteri».
Possibile che solo pochi si siano occupati di ‘ndrangheta? Perché?
«Il primo ampio studio sull’argomento è del 1992, scritto da Enzo Ciconte: ‘Ndrangheta dall’Unità a oggi. Conteneva già tutti gli elementi di previsione della sua rapida ascesa tra le prime criminalità del mondo. Perché questa sottovalutazione della ‘ndrangheta sia durata fino ai giorni nostri è questione storica, politica, culturale, non ancora risolta.
Nel periodo 1970-1988, la ‘ndrangheta ha effettuato ben 207 sequestri di persone, di cui 121 in Calabria e gli altri nel Nord dell’Italia, in particolare in Lombardia, accumulando risorse tali da consentirle di partecipare da protagonista ai lavori per la costruzione del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro, poi a quelli dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. E, infine, di ritagliarsi un ruolo da protagonista nel traffico internazionale di stupefacenti. Eppure l’attenzione su di essa non superava qualche riferimento folcloristico sui rifugi dell’Aspromonte e qualche similitudine con il banditismo sardo. Era il periodo del terrorismo in Italia e le priorità repressive dello Stato erano concentrate su di esso».
Insomma, la ‘ndrangheta operava in silenzio, ma si rafforzava…
«Non è vero che fino a 30 anni fa la ‘ndrangheta non rappresentasse un pericolo per la sicurezza nazionale. Né che fosse impossibile pronosticare il successo che poi ha avuto nel mondo criminale globale. Nelle migliori delle ipotesi si tratta di una imperdonabile leggerezza degli apparati di sicurezza del nostro Paese.
Camorre e ‘ndrangheta non erano affatto silenti quando, a partire dagli inizi degli anni ’70, la mafia siciliana occupa la scena criminale e monopolizza l’attenzione della pubblica opinione, della politica e degli apparati di sicurezza. Non erano in una fase di scarsa attività criminale, solo che su di esse – per ragioni varie – non c’era l’attenzione degli investigatori e degli apparati istituzionali dello Stato.
Nessuna criminalità diventa da un giorno all’altro così potente, se non ha un lungo retroterra storico, un lungo «apprendimento», una lunga sedimentazione alle spalle. E le servono una lunga disattenzione o sottovalutazione degli ambienti istituzionali, delle forze di sicurezza e svariate “agevolazioni” da parte di chi doveva contrastarla e combatterla».
L’Italia ha sottovalutato la pericolosità di ‘ndrangheta e camorra?
«I fatti hanno capovolto il paradigma interpretativo delle mafie e la sottovalutazione da parte di studiosi e degli apparati di sicurezza italiani. La camorra, considerata una semplice forma di moderno banditismo urbano sembrava quella più fuori dai canoni mafiosi. Oggi invece è quella più in ebollizione per l’alta conflittualità interna e per le sue capacità di espansione nell’economia legale.
La ‘ndrangheta, che sembrava più secondaria ed era praticamente semisconosciuta, era considerata una forma di ancestrale banditismo rurale. Poi ha letteralmente colonizzato, dal punto di vista criminale, il Centro-Nord. Tutte le previsioni in materia di evoluzione dei fenomeni mafiosi si sono dimostrate sbagliate. I servizi di intelligence non hanno fatto una bella figura: la sottovalutazione di camorra e ‘ndrangheta fa parte dei grandi limiti e compromissioni dei servizi di sicurezza italiani di quegli anni».
In tempi di globalizzazione, come si sono comportate le mafie meridionali?
«Innanzitutto si è determinato un processo di “nazionalizzazione” delle mafie, cioè la formazione di una presenza stabile e duratura delle organizzazioni mafiose nelle strutture economiche delle regioni del Centro- Nord che rappresentano il cuore pulsante dell’apparato industriale, produttivo e commerciale dell’Italia. Un esito del genere era considerato assolutamente impossibile dagli studiosi, dagli apparati di sicurezza, dalle forze politiche e dalla pubblica opinione rappresentata dalla stampa e dalle Tv.
Questa novità si era già percepita negli anni ’50 e ’60 del Novecento con la presenza al soggiorno obbligato di boss delle varie mafie meridionali, con investimenti nella piazza finanziaria di Milano. Ma si era trattato di incursioni, presenze sporadiche, finalizzate a qualche obiettivo limitato e non a una presenza stabile e duratura come quella odierna. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a previsioni sbagliate. Nessuno aveva ipotizzato che le mafie potessero insediarsi nel cuore produttivo italiano».
Come mai tutti hanno sbagliato previsioni?
«Si riteneva che il Centro-Nord, e soprattutto le regioni più ricche, fossero un ambiente ostile, inadatto allo sviluppo delle mafie o non in grado di ospitare fenomeni così arcaici. Insomma si pensava che essendo le mafie fenomeni di arretratezza economica e di primitività civile, mai e poi mai avrebbero sfondato in realtà ricche e di avanzata civilizzazione.
Quello che non si era capito e non si vuole capire (nonostante tutte le smentite) è che le mafie non hanno a che fare solo con la mentalità dei territori dove si sono sviluppate prima e dopo l’Unità d’Italia, ma possono espandersi e superare tranquillamente le colonne d’Ercole – o la linea delle palme, come la chiamava Sciascia – se si mette in moto una “affinità elettiva” con l’economia di altri luoghi e con gli interessi imprenditoriali di territori ad alto tasso civico e di benessere».
Quanto hanno contato i contesti nel Mezzogiorno e nel Nord del nostro Paese?
«Se nel Sud sono state le condizioni economiche, sociali e politiche a dettare le ragioni del successo delle mafie, ora sembra essere la struttura produttiva ed economica del Nord a presentarsi come ospitale e invitante per le mafie. Per capire il radicamento al Nord delle mafie oltre ogni previsione e aspettativa, bisogna interrogare l’economia di questa parte dell’Italia e i comportamenti delle sue classi dirigenti, quelle politiche e quelle imprenditoriali».
Qual è il vettore principale della globalizzazione delle mafie?
«È il traffico di droga ancora oggi a determinarla. Una spinta ancora più significativa perché non è causata dal fatto che in Italia, o in Paesi vicini, si produca droga. È questo il caso di un ruolo internazionale non dettato da ragioni geo-politiche, ma da ragioni commerciali. Cioè dalla capacità di entrare in un mercato dove non si possiede la materia prima, ma la si procura in relazioni con i produttori di altri continenti».
Stanno cambiando – per effetto della nuova dimensione geografica dei mercati – le gerarchie nel mondo delle organizzazioni criminali?
«Il cambiamento di gerarchie all’interno dell’universo mafioso ha avuto recentemente numerosi e ampi riscontri nelle relazioni degli organi di governo e del parlamento preposti al contrasto, negli atti della magistratura, nei dati sugli scioglimenti dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, nelle statistiche sui beni sequestrati e confiscati, nel numero di omicidi commessi negli ultimi 25 anni, e perfino nel numero complessivo dei pentiti.
Il Ministero dell’interno, in un recente studio, ha stimato le entrate economiche della camorra in 3.750 milioni di euro e quelle della ‘ndrangheta in 3.491, mentre Cosa nostra si attesta a 1.874 milioni di euro e la criminalità pugliese a 1,124. Camorra e ‘ndrangheta, dunque, cumulano ben il 67% di tutti i ricavi mafiosi. La Calabria risulta essere la regione italiana con la più elevata densità di reati in rapporto alla popolazione, Napoli invece ha il primato per omicidi ogni centomila abitanti (tra le città a presenza mafiosa) e il record assoluto nel numero di clan e di affiliati.
Se si analizzano le ordinanze di custodia cautelare dal 1992 al 31 dicembre del 2020 per il reato di 416 bis, si può verificare come la camorra tocchi la cifra di 3.219 arrestati (il numero più alto in assoluto) la ‘ndrangheta quella di 2,800 (il numero più alto in rapporto alla popolazione) Cosa nostra 2.193, mentre la criminalità mafiosa pugliese arriva a 811. Dei 759 reclusi al 41 bis, cioè al carcere speciale per i mafiosi, 266 sono camorristi, 210 ‘ndranghetisti e 203 appartenenti a Cosa nostra: i calabresi e i campani superano il 60% del totale.
Se poi si prendono in considerazione i delitti commessi dal 1983 al 2018, si può notare come la camorra abbia commesso 3,026 omicidi (ben il 45,4% di tutti gli omicidi di mafia) Cosa nostra 1.701 (il 25, 5%) e la ‘ndrangheta 1.320 (il 19,85). Quest’ultimo dato, se rapportato alla popolazione, è di gran lunga il più alto».
Quali dialetti si parlano oggi nel mondo criminale?
«Sempre più il napoletano e il calabrese, non il siciliano. Questo cambiamento è stato in qualche modo registrato anche dall’industria culturale, in particolare da quella cinematografica. Dal 2006 al 2018 su 61 film prodotti sul tema delle mafie, ben il 50% di essi ha riguardato la camorra. E per segnalare le perifericità del tema ndrangheta nella opinione pubblica italiana, va ricordato che su 337 film girati dal 1948 al 2018, solo 16 hanno avuto come argomento la ‘ndrangheta, cioè il 4%, come ricorda Marcello Ravveduto nel libro Lo spettacolo della mafia».
Come sta cambiando la struttura della ‘ndrangheta a seguito del suo processo di globalizzazione?
«Così come la mafia siciliana ha assunto un ruolo centrale grazie al rapporto con Cosa Nostra americana che l’ha proiettata nel corso del Novecento tra le protagoniste del crimine mondiale, anche la ‘ndrangheta deve oggi il proprio ruolo nazionale e internazionale alla proiezione globale che le è stata fornita dai legami vasti con le ‘ndrine presenti fuori dai territori calabresi. Ancora una volta sono le relazioni internazionali a decidere del successo di una mafia rispetto a un’altra. Caso a parte è quello delle bande di camorra napoletana».
E la camorra come si sta ristrutturando?
«L’ascesa della ‘ndrangheta tra le principali criminalità del mondo va considerata come un successo di una colonizzazione avvenuta a ridosso delle aree storiche di emigrazione dei calabresi. Per la camorra, invece, il processo di “nazionalizzazione” e “internazionalizzazione” non sembra legato alla riproduzione di un proprio modello tra gli emigrati napoletani o campani in Italia e nel mondo.
I calabresi riproducono all’estero o nel Nord dell’Italia il modello delle ‘ndrine. La camorra non esporta un suo modello organizzativo né un modello di vita, ma solo criminali in affari che si stanziano nei posti strategici della produzione e delle rotte del narcotraffico o in ogni luogo dove è possibile fare investimenti, smerciare prodotti contraffatti, senza seguire necessariamente le rotte dell’emigrazione napoletana e campana. La camorra, dunque, esporta camorristi, la ‘ndrangheta trapianta un suo modello criminale fuori dalla sua zona di origine».
Cosa nostra assume oggi una posizione defilata?
«Il ridimensionamento internazionale di Cosa nostra (ridimensionamento, si badi, non sconfitta) è stato confermato nel 2014 quando un’indagine della Procura di Reggio Calabria ha dimostrato che Cosa nostra americana, per un cinquantennio principale partner della mafia siciliana, preferiva avere rapporti con la ‘ndrangheta piuttosto che con la sua consorella sicula. E un’altra indagine ha accertato che la mafia siciliana è costretta a comprare la droga dalla ‘ndrangheta perché non è più in grado di approvvigionarsi da sola sui mercati di produzione».
Possiamo definire una gerarchia criminale tra le tre grandi strutture meridionali?
«Nel cambio di gerarchia all’interno della criminalità italiana hanno operato più fattori. Ma quello essenziale riguarda la perdita da parte di Cosa nostra del controllo del mercato delle sostanze stupefacenti. In particolare, quello dell’eroina. Questa caduta di ruolo comincia a manifestarsi a metà degli anni ’90 con l’aumento esponenziale della domanda di cocaina. Al contempo, a causa dell’alto numero di morti e del conseguente allarme della pubblica opinione, si registra la flessione di quella di eroina, droga in cui si era specializzata Cosa nostra grazie ai rapporti storici con la mafia negli USA.
Sempre in quel periodo, l’azione dello Stato si fa più dura in Sicilia dopo l’uccisione dei magistrati Falcone e Borsellino. È in questo momento storico che camorristi e ‘ndranghetisti vanno ad occupare il vuoto lasciato da Cosa nostra. Si propongono come interlocutori privilegiati di numerosi gruppi criminali internazionali, a partire dai narcotrafficanti del Sud America, area produttrice di tutta la cocaina del globo. Se la ‘ndrangheta godrà nel mondo criminale del prestigio di chi paga sulla parola e rispetta i patti grazie alle grandi disponibilità economiche e alla drastica punizione di chi sgarra, la camorra riesce a “democratizzare” il consumo della cocaina, mettendo a disposizione vaste aree di spaccio controllate militarmente, prezzi bassi, facilità di approvvigionamento e rifornimento di altre piazze di smercio in Italia».