Davide Imbrogno è una delle menti artistiche più interessanti che siano sbocciate negli ultimi anni nelle Calabrie. Esperto di comunicazione e pubblicità, film-maker, scrittore, sceneggiatore, ha viaggiato tanto, mantenendo solidi legami con la propria terra d’origine. Di recente ha realizzato un cortometraggio nel quale in tanti vedono un’alternativa intelligente alla bucolica e pseudoromantica rappresentazione offerta dal costosissimo corto del regista Muccino, finanziato dalla regione Calabria.
Il titolo del tuo cortometraggio Me Shëndet in arbëreshë significa “Con Salute”. È anche un messaggio augurale verso un pianeta che negli ultimi anni s’è riscoperto malato?
«In lingua arbëreshë è usanza salutare il prossimo dicendo Rri mirë, ovvero “stammi bene”, e l’altra persona, come consuetudine risponde Me Shëndet” “con salute”. Infatti è proprio uno scambio di battute che ho riportato sul finale del corto. Augurare di star bene al prossimo credo sia un concetto di umanità, oggi più che mai da ribadire. È un pianeta ammalato sotto tutti i punti di vista il nostro: ecologico, salute delle persone – questa pandemia ne è l’esempio più lampante – ma soprattutto è ammalato nelle relazioni verso il prossimo. L’individualismo è forse la malattia peggiore. Mi piace pensare che ognuno di noi possa avvertire l’esigenza di augurare al prossimo di star bene».

Cosa significa valorizzare luoghi e culture originarie in un tempo attraversato dal sovranismo identitario?
«La parola identità è un termine bellissimo. Attraverso l’identità ognuno di noi si distingue dall’altro. Le persone, i luoghi, le comunità, senza identità non avrebbero la propria cultura, le proprie tradizioni. Ma oggi la parola identità viene strumentalizzata spesso dalla politica. L’identità viene confusa con il concetto di difesa dei confini e questo ci induce a pensare, e credere, che le identità altrui siano quasi una minaccia per la nostra. Credo che bisogna solo essere consapevoli di ciò che siamo, e, questo, deve portarci ad esser consapevoli di comprendere il prossimo. Nel corto ho parlato di accoglienza, di confronto. Non a caso partendo dall’identità arbëreshë – ho voluto inserire all’interno del film altre culture, altre storie – apparentemente differenti dalla nostra. La comunità di San Benedetto Ullano da anni accoglie il prossimo, ne è un esempio il lavoro magistrale che sta compiendo lo Sprar accogliendo ragazzi provenienti da tutto il mondo. E anche loro sono stati protagonisti del corto. San Benedetto è stato un luogo che cinquecento anni fa ha accolto gli arbëreshë in fuga, oggi accoglie ragazzi che provengono dall’Africa, dal Pakistan ecc. Credo che questo sia uno degli aspetti principali dell’identità di San Benedetto Ullano: accogliere il prossimo. Non trovi meraviglioso tutto questo?».

Non sono pochi i registi teatrali e cinematografici, nonché i fumettisti – mi riferisco a quelli non indigeni -, che negli ultimi anni sono venuti quaggiù a descrivere le Calabrie o ad ambientarvi i loro lavori. Riproponendo scenari da Grand Tour, alcuni ne hanno inquadrato la componente selvatica, altri quella malavitosa, pochi sono andati però alla ricerca di una bellezza scevra da riflessi esotici o maligni. Ma è davvero così complesso ascoltare e far parlare questi territori?
«Non credo sia così complesso, dipende da ciò che si vuole narrare. Credo che si possa fare del marketing territoriale senza cadere nello stereotipo dei paesaggi – stile servizio televisivo da trasmissione pomeridiana come “Geo e Geo” (con tutto il rispetto per la trasmissione). I paesaggi, le bellezze mozzafiato le possiede la Calabria, e le possiedono i luoghi di tutto il mondo. Puoi far vedere ogni bellezza, da quella paesaggistica a quella culturale, cercando di raccontare il tutto con un punto di vista differente da quello comune. Altrimenti rischiamo di finire nello stereotipo. Non è ciò che fai vedere o ciò che racconti, la differenza sta nel “come” esponi un luogo. Non sono un documentarista e non sarei capace di realizzare un documentario. Amo raccontare un luogo attraverso le sensazioni che quel luogo mi trasmette. Ad esempio nel film, a metà racconto, la protagonista si imbatte in un sogno. Per uno spettatore che non conosce San Benedetto Ullano e la cultura italo-albanese può apparire che quelle immagini siano frutto della mia fantasia. In realtà quelli sono luoghi, tradizioni, persone, costumi, canti arcaici appartenenti alla nostra cultura. Avremmo potuto far vedere il tutto attraverso delle immagini di reportage. Invece lo abbiamo fatto attraverso un linguaggio onirico. Magari piacerà, o magari no, ma il concetto non è se piace o non piace, il concetto è quello di mostrare le cose attraverso la scelta di un lessico che sia differente rispetto a quelli usati e strausati fino ad oggi. Questo crea la differenza tra un’opera o un’altra. Al di là di qualsiasi valore estetico».

Questo tuo ultimo film, al di là di qualsiasi tentazione polemica, rappresenta anche una risposta al cortometraggio del regista Muccino. Ti è piaciuto il suo lavoro commissionato dalla Regione?
«Non era la mia intenzione dare una risposta al corto di Muccino. Sarei un megalomane se pensassi questo. In primis vista la differenza di budget e quindi di strumentazione, produzione ecc. e di esperienza e talento che un regista come Muccino possiede. Detto ciò… il corto di Muccino non mi è piaciuto. E non solo per tutti gli stereotipi presenti nel racconto, ma soprattutto perché c’è sempre il concetto che dobbiamo essere noi “calabresi” a spiegare al prossimo cosa siamo e chi siamo – il personaggio di Raoul Bova che rientra in Calabria spiega e mostra alla compagna la nostra terra. È forse questo lo stereotipo più grande: spiegare agli altri chi siamo e cosa possediamo, facendolo apparire migliore rispetto a tutto il resto. Il bergamotto lo abbiamo solo noi e nessun altro! Penso che non ci sia forma di campanilismo peggiore».
Se fosse toccato a te il compito di realizzare il corto di Muccino, quali linguaggi e contenuti avresti scelto?
«Lo avrei raccontato attraverso “gli altri”. Non attraverso i calabresi. Mi sarebbe piaciuto fare una ricerca di tutte quelle persone, donne e uomini, provenienti da altre parti del mondo che hanno scelto per un motivo di vivere qui. Perché lo hanno fatto? Mi sarebbe piaciuto fare un corto sulle scelte altrui. Perché hai scelto di venire a vivere in Calabria? E attraverso le loro risposte, sono sicuro che si sarebbero mostrati paesaggi, cultura, luoghi, atmosfere, amore – perché ognuno di questi aspetti magari rappresenta il motivo di una scelta. Vedi, nel cortometraggio Me Shëndet tra i protagonisti c’è il mio amico Josh Gaspero, editore statunitense. Che dopo aver trascorso una vita in giro per il mondo, frequentando il jet set di New York, Los Angeles ecc. vent’anni fa ha scelto di venire a vivere ad Altomonte (CS), abbandonare la sua vita, la sua nazione, per trasferirsi in un borgo della Calabria. Penso che ci siano tante storie simili a quella di Josh. Sarebbe bellissimo raccontarle, e spiegare il perché di queste scelte. Perché si possa scegliere di vivere in un luogo piuttosto che in un altro, a maggior ragione se quel luogo non ti ha dato i natali».
Posso chiederti quanto è costato produrre “Me Shëndet”?
«È un corto low budget. Il comune di San Benedetto ha aderito ai contributi per la tutela e la valorizzazione delle lingue e del patrimonio culturale delle minoranze linguistiche e storiche della Calabria – il contributo è stato di circa duemila e quattrocento euro. Il resto ho deciso di co-produrlo io, ringraziando anche tutto il cast tecnico ed artistico – che hanno creduto nel progetto e mi hanno agevolato nella realizzazione del film, condividendo il progetto. È un’opera realizzata con meno di 10 mila euro totali».
In quali contesti circolerà? Dove e come sarà visionabile?
«Per prima cosa la divulgazione sul web. Oggi è la forma di divulgazione mediatica che con costi bassi ti permette di divulgare al meglio, geo localizzando e “targettizzando” il tuo pubblico di riferimento. Inoltre abbiamo l’intenzione di portare il corto fuori attraverso la partecipazione a festival e non solo, ma anche coinvolgendo centri linguistici e multiculturali esteri».
Di recente hai sposato la bellissima Sonia Tiano. Auguri! La tua musa è cantante ricca di talento e musicoterapeuta. Nella cura delle ataviche malattie sociali della Calabria, quanto possono contribuire la musica e le arti in genere?
«Sarà felicissima mia moglie per questa domanda! Ti ringrazio. Credo che le arti siano non uno dei rimedi, ben sì siano il “Rimedio”. L’arte, non solo per coloro che la producono, ma soprattutto per coloro che ne usufruiscono (traendone beneficio), è lo strumento che può far scaturire nell’essere umano la curiosità. La curiosità è la chiave di volta. Pensa al mito della Caverna di Platone, pensa ad Ulisse. Platone faceva dire a Socrate, nell’Apologia “senza curiosità l’esistenza non è umana vita…”. Solo attraverso di essa possiamo approfondire, capire e cercare le soluzioni a tutte le malattie sociali che ci circondano. Auguro a tutti noi tanta curiosità, e che essa possa scaturire dall’arte, dalla cultura e dalla consapevolezza priva di qualsiasi forma di campanilismo di ciò che siamo e di ciò che vogliamo divenire».