Ho conosciuto Giuseppe Aloe qualche anno fa a Rossano. A cena con amici comuni si parlava ancora di libri e di Celine. Lo scrittore di origini cosentine ha lasciato il bicchiere di birra e recitato a memoria la prima pagina o poco più di Morte a credito. Tornare ai classici, ecco. Un buon modo per ribadire il concetto in una Calabria che scrive tanto e legge poco. Aloe non è proprio d’accordo con queste classifiche. Ne parlo con lui. Mi racconta del suo ultimo libro, Le cose di prima (edito da Rubbettino), e non solo, in una villa vecchia che cerca in tutti i modi di attutire l’estate infernale di questi ultimi giorni a Cosenza. Tra i suoi romanzi compaiono titoli come La logica del desiderio (finalista al Premio Strega), Ieri sera ha chiamato Claire Morin, Lettere alla moglie di Hagenbach.
Le cose di prima? Perché questo titolo?
«È un’espressione dell’Apocalisse di Giovanni. Le cose di prima sono finite perché nella sua visione è arrivato Dio. Io l’ho reso in un senso quasi interrogativo. Ma le cose di prima sono davvero finite? È un libro che si pone questa domanda. È possibile che siano finiti i momenti più drammatici dell’adolescenza? Siamo sicuri che non abbiano lasciato nulla nella nostra vita?».
Come nasce questo suo ultimo libro?
«Era da tempo che ragionavo sul concetto di adolescenza. Un giorno a Milano sono andato al funerale di un compagno di scuola di mio figlio, un ragazzo che si è suicidato a 19 anni in carcere. E il prete ha letto questo passo dell’Apocalisse di Giovanni. “Le pene, l’infelicità, sono passate”. Questa frase mi ha instantaneamente procurato una visione. In quel momento ho avuto chiara l’intera trama del romanzo. Tranne il finale. È arrivato dopo. Il materiale c’era già nella testa. Mancava lo spunto».
Cosa c’è dietro il processo creativo che dà vita a un romanzo?
«Nella mia testa ci sono delle idee di romanzo. Che non vanno a compimento. Quando c’è un clic e riesco a trovare il bandolo della matassa in venti giorni lo finisco. Dal primo all’ultimo capitolo. Una discesa libera. È il mio metodo di lavoro».
Una traccia che lega la Logica del Desiderio a questa sua ultima fatica letteraria?
«Tutti i miei libri hanno una costante. Nella vita di ciascuno di noi quando la ragione perde il suo status, lascia spazio alla follia. E cosa accade? I miei sette romanzi sono sulla follia. Chiaramente intesa in senso greco, la manìa che ci governa. Che era degli indovini, dei poeti e degli innamorati. La follia del dolore, dell’amore come nella Logica del desiderio, la follia dell’infanzia, della vecchiaia, dell’ingiustizia. Nelle Cose di prima la follia dell’adolescenza».
Cinque libri o autori da portare sull’Arca con lei?
«Il vocabolario della lingua italiana. Poi Kafka, L’altro processo di Canetti, Molloy di Samuel Becket, alcuni racconti di Carver, Musica per Camaleonti di Truman Capote. E italiani? Lo Zibaldone dei pensieri di Leopardi. Summa che anticipa Nietzsche. Un libro fondamentale ma poco studiato e tradotto».
Ma questa storia della Calabria fanalino di coda nelle classifiche di lettura ha un po’ rotto le scatole?
«Queste classifiche non controllano quanti libri vengono letti ma quanti ne sono venduti. Cosa bene diversa. Questo genere di classifiche sono apparenti, non hanno alcuna sostanza.
Quando vieni in Calabria dovresti parlare con le persone e ti rendi conto del livello culturale di questa regione. Vado in giro e trovo sempre gente molto colta e preparata. Come è possibile se in Calabria non legge nessuno? Non è vero. Io vivo a Milano. La stragrande maggioranza dei milanesi è incolta. Però Milano è la capitale culturale d’Italia. Dovremmo fare degli studi non sulle vendite ma sulla capacità di apprendimento».
Il futuro sarà Chat Gpt oppure c’è speranza?
«Il problema non è chatGpt ma gli editor, i corsi di scrittura creativa. In alcuni ambiti editoriali i romanzi sono molto simili. Libri standardizzati. Esci da una scuola di scrittura e applichi quello che hai imparato. Lo stesso faranno gli altri studenti. La letteratura deve superare se stessa, non deve indovinare i giorni di dolore. Quando tuo nonno ti picchiava, tuo padre ti trattava male. Basta! Così non si va avanti».
In Calabria scrivono in tanti, però?
«Sì, ci sono tante persone che corrono. Ma non sono Marcell Jacobs. È la stessa cosa. Tutti possono scrivere, ma per arrivare alle Olimpiadi serve qualcosa dietro. Una vita passata sui libri. Studiare, leggere e avere il senso della scrittura. Altrimenti si possono fare esercizi lirici o meno. Che non sono scrittura ma allenamenti della tua vita».
Cosenza Atene delle Calabrie? Lei che ne pensa?
«C’è un impoverimento culturale della città e non solo. Abito a Cosenza vecchia. Si vede che è instabile, eppure è un patrimonio culturale non solo della nostra città. Nessuna amministrazione è stata in grado di risollevarla. Ma quando vengo a Cosenza, non posso negarlo, trovo sempre un buon livello culturale».
Cosa rappresenta per lei il richiamo di Africo, l’appuntamento annuale sotto il grande albero pensato da Gioacchino Criaco?
«Gioacchino è un mio amico come Mimmo Gangemi e Domenico Dara. L’appuntamento di Africo rappresenta il ripensare a chi sei, quale è il tuo posto nel mondo. Abito a Milano ma mi sento profondamente calabrese. Radicato alla mia terra. I tedeschi hanno la parola Heimat. Cosenza e la Calabria sono la mia. E Africo è una madre che ti richiama e ti rimprovera perché non stai pensando troppo alla tua Heimat».
Ma Lettere alla moglie di Hagenbach è un libro mitteleuropeo, di calabrese nemmeno l’ombra.
«Il respiro è Mitteleuropeo, Da Praga a Vienna, a Berlino, Lubecca. Ma il dolore che c’è nelle mie storie è quello che ho vissuto al Sud. Quella striscia di dolore che tutti abbiamo conosciuto e che non ti abbandona mai».