Comincia il conto alla rovescia per il XXII Festival delle Invasioni, all’insegna – è ormai il claim di questa edizione – della contaminazione e della contemporaneità.
Il 13 e il 14 luglio nel centro storico risuoneranno rock, elettronica, jazz, world music (qui il programma): ne abbiamo parlato con il consigliere comunale Francesco Graziadio, ideatore insieme al direttore artistico Paolo Visci, di un cartellone che vuole riproporre atmosfere post punk e suoni elettronici come negli anni d’oro della kermesse e archiviare certe edizioni «da sagra paesana dell’era Occhiuto». È l’occasione per un primo bilancio di questa esperienza a Palazzo dei Bruzi: l’entusiasmo, le difficoltà e quel silenzio irreale che regna dentro un municipio incredibilmente deserto.
Come te le immagini queste serate del festival?
«Sotto il profilo artistico e musicale me le immagino fantastiche. E so che non resterò deluso. Sotto il profilo della partecipazione me lo immagino come tutti quelli che organizzano eventi di questo tipo: alle 8.00 penso che sarà un successo, alle 8.05 penso che saranno un fiasco clamoroso, alle 8.10 sarà tutto bellissimo e stupendissimo, alle 8.15 sotto il palco saremo in sette compresi mia moglie e mio figlio e così via… In realtà è una vera e propria incognita: ho percepito una grande attesa per un evento che è rimasto fermo per tre anni, ottimi riscontri per il cast artistico da parte degli appassionati, ma anche una certa diffidenza per i nomi non proprio conosciutissimi».
Sono state fatte scelte musicali molto particolari. Che percezione hai del pubblico cosentino?
«Cosenza è una città con una sua storia e una sua tradizione. Ha un orecchio educato anche a sonorità non esattamente commerciali. Ho incontrato cosentini in concerti a Roma, Milano, Londra, Barcellona. Ascoltano rock, punk, post-punk, metal, elettronica, hip hop… Sono incuriositi dalle sperimentazioni. Comprano dischi, leggono riviste specializzate, fanno musica. Malgrado la posizione geograficamente periferica Cosenza ha sempre accolto con entusiasmo tutti i grandi movimenti musicali degli ultimi 50 anni, dal Beat e dal Progressive in poi. Gli artisti che si esibiranno il 13 ed il 14 sapranno soddisfare i palati più raffinati. Senza nulla togliere agli altri, possiamo dire che Clock DVA e The Bug sono nomi che hanno fatto e stanno facendo la storia della musica».
Qual è il è il tuo ricordo più bello legato alle edizioni passate del festival delle Invasioni?
«Questa è davvero, davvero difficile. Mi devi concedere almeno una doppia possibilità. Dal punto di vista musicale sicuramente il concerto acustico di John Cale al Duomo. Il leggendario leader dei Velvet Underground, cresciuto nella Factory di Andy Warhol, a pochi metri da me. L’urlo finale alla fine di Fear mi fa ancora accapponare la pelle. Ma Invasioni non è stata solo musica e non dimenticherà mai la performance di Fura del baus su Corso Mazzini. Uno spettacolo fantastico, con la folla che sgomitava per salire sul loro mezzo postatomico e surreale per scenderne sporca, sudata ed irragionevolmente felice. Ma restano fuori i Mutoid, I Tamburi del Bronx, la chitarra di Tom Verlaine…»
Hai percepito critiche legate al fatto che i concerti sono a pagamento?
«Qualcuna. Mi rendo conto che si tratta di un cambiamento importante, anche se per Lou Reed abbiamo pagato un biglietto. Devo dire, però, che l’ingresso è davvero popolare, con un prezzo politico, se mi passi il termine. Trenta euro per due serate con nove live di livello sono davvero pochi. Basta fare il confronto con le altre realtà musicali per rendersi conto dello sforzo che abbiamo fatto. Oggi gli artisti non guadagnano più con i dischi ed i concerti sono diventati costosissimi».
E cosa rispondi a chi potrebbe obiettare che si è passati da scelte eccessivamente commerciali e mainstream – nel decennio occhiutiano – ad artisti noti soprattutto nel circuito indipendente?
«Non mi permetto di giudicare le scelte artistiche degli altri, di dire che è cambiata proprio la prospettiva. Il Festival delle Invasioni era diventato una specie di cartellone per i cosentini rimasti in città a morire di caldo, una sagra paesana. A me le sagre paesane piacciono moltissimo, ma il Festival delle Invasioni era una cosa diversa, non il luogo dove ascoltare con una pizzetta in mano il musicista che puoi sentire alla radio del supermercato facendo la spesa. Noi abbiamo pensato di tornare allo spirito delle prime edizioni: dare al pubblico uno spettacolo di alta qualità artistica scegliendo fra i musicisti che hanno una prospettiva originale ma riconosciuta dalla critica internazionale. Con umiltà, perché siamo un Comune in dissesto e non abbiamo le disponibilità economiche di 25 anni fa. Ma anche con ambizione, perché la formula che abbiamo scelto (concentrare l’evento in due giorni) è quella di tutti i festival musicali del mondo e speriamo che, con il tempo, possa diventare un appuntamento fisso per tutti gli appassionati di musica calabresi e, perché no, italiani. Il direttore artistico Paolo Visci, che non ringrazierò mai abbastanza, ha fatto davvero un lavoro fantastico e con lui abbiamo già parlato della prossima edizione…».
Un primo bilancio di questa esperienza da consigliere comunale nella giunta Caruso?
«Difficile. Una esperienza difficile persino oltre le previsioni. Delle difficoltà economiche sapevamo, anche se nessuno poteva immaginare il disastro che abbiamo trovato entrando a Palazzo dei Bruzi, ma la carenza di personale è davvero un problema che rischia di rendere vano ogni sforzo. I dipendenti del Comune sono un terzo rispetto a pochi anni fa ed è complicato trovare le risorse umane capaci di portare avanti un programma ambizioso come quello che abbiamo proposto ai cittadini. Le buone idee camminano sulle gambe degli uomini, e quando cammini a Palazzo dei Bruzi puoi sentire l’eco dei tuoi passi, tanto il silenzio che regna in quei corridoi. E poi io sono un tipo pratico, abituato a fare, ma i consiglieri possono fare ben poco. Ma se quel poco è il Festival delle Invasioni posso dirmi soddisfatto. Un’altra cosa: il risanamento dei conti. Se a fine mandato saremo riusciti a rispettare gli impegni presi (e sono ottimista) avremo reso un buon servizio alla città. Di cose da fare ce ne sarebbero tante e so che i cosentini sono critici ed esigenti, ma riuscire a governare senza fare altri debiti mi sembra un obiettivo prioritario. Per rispetto ai cosentini di domani».