Quando Rosina Gullo e Giannino Losardo si sposarono lui era tornato in Calabria da poco. Era la metà degli anni ’50 ed era riuscito farsi trasferire dalla Pretura piemontese a cui era stato assegnato al Tribunale di Paola. Era di Cetraro, dunque era tornato a casa. Ma probabilmente non sapeva cosa lo aspettava. Non solo dentro quegli uffici, ma anche fuori, sulla strada che lo vide cadere vittima, 33 anni dopo, di un agguato mafioso che fu ricondotto al clan del «re del pesce» Franco Muto. Giannino, all’epoca consigliere comunale del Pci e segretario capo della Procura paolana, venne ucciso la sera del 21 giugno 1980, 10 giorni dopo l’omicidio di Peppino Valarioti. Rosina è morta un paio di settimane fa. E non ha mai avuto giustizia per suo marito.
Sostegno a intermittenza
Al suo funerale, il 16 dicembre scorso, a Fuscaldo non c’era molta gente. In prima fila il sindaco di Cetraro, Ermanno Cennamo. Quando facciamo il suo nome a Giulia Zanfino, giornalista freelance e autrice del docufilm Chi ha ucciso Giannino Losardo, lei racconta che prima delle elezioni Cennamo era molto disponibile nel metterla in contatto con le amministrazioni locali che avrebbero potuto patrocinare il suo lavoro d’inchiesta. Una volta eletto sindaco, però, è «scomparso». Solo dopo che Zanfino ha parlato di questo in un’intervista alla Tgr Rai lui ha dichiarato «la totale volontà della sua amministrazione di sostenere» il docufilm.
Una pista da battere
Losardo era uno strenuo oppositore della mafia e della malapolitica. Quando morì accorsero a Cetraro anche Enrico Berlinguer e Pio La Torre. La politica, la lotta al malaffare e all’ascesa criminale dei Muto – la cui pescheria al porto di Cetraro era il simbolo del suo potere sul territorio – sono state sempre le piste privilegiate per chi ha indagato sul delitto. Il processo è però finito in una bolla di sapone e, oggi, chi come Zanfino insegue tracce da anni si è convinto che un’altra pista è stata sottovalutata. Quella della corruzione nella Procura di Paola, un luogo in cui la rettitudine di un funzionario come Losardo non poteva che essere un ostacolo alla gestione disinvolta di questioni legate agli affari più redditizi sul Tirreno cosentino.
«Secondo me può essere la vera chiave per arrivare, prima o poi, alla verità», dice la regista, che confessa di aver scovato la trascrizione di un’intercettazione nella cassetta di sicurezza che Losardo aveva in Procura. Riguarda una telefonata «interessante», rispetto a questa pista, tra Muto e un noto avvocato.
Insieme per la verità
Il progetto – fotografia di Mauro Nigro, tra gli attori Giacinto Le Pera (Losardo) e Francesco Villari (Muto) – ha vinto un bando della Calabria Film Commission. Nato da un’idea di Francesco Saccomanno e prodotto dall’Associazione Culturale ConimieiOcchi (produzione esecutiva OpenFields), ha il patrocinio della Commissione parlamentare antimafia, oltre che il sostegno dei Comuni di Paola, Acri, Casali del Manco, fondazione Carical, Parco Nazionale della Sila, Proloco di Acri, Colavolpe, BCC Mediocrati.
Il clima a Cetraro
Zanfino ha intervistato i compagni di Losardo che hanno subìto, negli anni, minacce e soprusi. «Ancora oggi – racconta – a Cetraro c’è un clima di terrore». Ne ha avuto esperienza diretta assieme a Nigro a settembre del 2020: l’unica volta in cui si è esposta con la telecamera a Cetraro, è andata a un seggio elettorale vicino a casa di Muto. Ha chiesto a chi andava a votare se si ricordasse di Losardo ed è stata presa a male parole da una donna che le urlava contro che «Losardo lo dovevamo lasciare dov’era…».
In un’altra occasione aveva chiesto a un’associazione locale di intercedere con un gruppo di pescatori, con la scusa di documentare le espressioni dialettali con cui conducevano le trattative per la vendita del pesce, affinché li filmasse. Ma anche in quel caso ha incontrato problemi.
Il fascino del male
Tra le interviste del docufilm c’è quella a Tommaso Cesareo, oggi assessore nella giunta Cennamo (il più votato alle elezioni del 2020) che non nasconde di aver frequentato in passato gli esponenti del clan. «Con loro – dice Cesareo – potevi permetterti di entrare ai night, nelle discoteche… rappresentavano il potere. E queste cose più che biasimarle io devo ammettere che mi affascinavano. Un errore madornale – aggiunge mostrandosi pentito – che io mi sono portato dietro per anni». Ma racconta anche che «tutta Cetraro era amica di Muto».
Colpiscono le parole di Leonardo Rinella, pm nel processo che si celebrò a Bari, per «legittima suspicione», perché quando a Cosenza provavano a interrogare Muto in aula succedeva il finimondo. Nel processo erano coinvolti anche Cesareo, il padre Carlo e il fratello Giuseppe – mentre un altro fratello, Vincenzo, è il direttore sanitario accusato di fare tamponi ad amici, parenti e «pure ai gatti». Nello stesso procedimento pugliese finirono accusati l’allora procuratore capo di Paola Luigi Balsamo (omissione in atti d’ufficio) e il sostituto “anziano” Luigi Belvedere (interesse privato in atti d’ ufficio e falso). Per tutti – magistrati, mafiosi e presunti killer – alla fine arrivò l’assoluzione.
Un processo da spostare
«La fase istruttoria – racconta Rinella a Zanfino – la svolgemmo in Calabria. Colpiva l’inframittenza continua che il sostituto Belvedere aveva in tutti i processi, anche quelli che non lo riguardavano. Poi c’era la debolezza del procuratore capo. Una brutta Procura della Repubblica. C’era anche stato un altro caso, fuori dal processo Muto, di un magistrato, Fiordalisi, che era stato sottoposto a inchiesta disciplinare. Non avemmo una buona impressione e capimmo perché il processo difficilmente si sarebbe potuto celebrare con successo a Paola. Direte che neanche a Bari ha avuto successo… avete ragione. Ma, onestamente, non mi sento colpevole».
Ombre sul tribunale
Il quadro emerge con chiarezza inquietante da una relazione disposta dal Ministero della Giustizia nel 1991. A scriverla, dopo una lunga inchiesta, fu il «magistrato ispettore» Francantonio Granero. Un lavoro meticoloso che restituisce una realtà giudiziaria in cui i veri «padroni» sarebbero stati l’allora presidente del Tribunale William Scalfari e i due sostituti, Belvedere e Fiordalisi. Del primo vengono ricostruite le attività da «imprenditore di fatto» in società, di cui faceva parte il figlio e in cui non mancavano nomi noti della politica e delle professioni, che costruivano complessi alberghieri con miliardi di finanziamenti pubblici.
Nel dossier Granero si raccontano dispetti e ripicche tra pm e polizia giudiziaria, ma anche di magistrati con la passione per le auto sportive e gli assegni a vuoto (il figlio di Belvedere ne emise per oltre due miliardi in una vicenda a cui Granero collega il suicidio di un direttore di banca). E di imprenditori amici come Francesco Ventura – padre della (per poco) candidata alle passate Regionali Antonietta – che metteva soldi suoi per coprire i debiti del magistrato. Lo stesso magistrato che, per dirne una, pretendeva di avere solo per sé, per andare al bar, un posto auto in piazza riservato alla polizia. Mentre il collega, per dirne un’altra, chiedeva un prestito da 20 milioni di lire a un perito – all’epoca impegnato nel processo sull’omicidio Scopelliti – che era indagato in un’inchiesta di cui lo stesso magistrato era titolare.
Gli amici
Per non parlare delle considerazioni sulla gestione delle procedure fallimentari, delle amministrazioni controllate e del giro di commissari giudiziari e consulenti. E per finire con l’avvocato Granata, presidente dell’Ordine e a lungo vicepretore onorario, che era intimo amico di Losardo e che ne raccolse le ultime parole. Quando Giannino era morente, secondo la ricostruzione del pm Rinella, Losardo «chiese solo ed esclusivamente di Granata». Il quale però secondo il magistrato «non lo volle rivelare, chiudendosi in silenzi assurdi» e sostenendo che Losardo avesse solo farfugliato qualcosa di irrilevante.
Ai suoi soccorritori, mentre lo portavano in ospedale, Giannino disse che erano stati «gli amici» e che «tutta Cetraro» sapeva chi gli aveva sparato. A distanza di oltre 40 anni gli assassini restano impuniti. Qualche magistrato ha fatto carriera e qualche altro è morto tra onori di Stato. E la sorveglianza speciale, misura che per un periodo è stata data a Franco Muto, la si vorrebbe imporre a chi lotta per difendere diritti e beni comuni.