L’ultimo Rapporto Svimez, ripreso un po’ frettolosamente dai media e subito strumentalizzato a livello politico, fotografa con precisione il cosiddetto “rimbalzo”, cioè la crescita italiana dopo la fase dura della pandemia. Il tutto nell’ottica particolare del Mezzogiorno, di cui esce un’immagine problematica, in cui sofferenze e speranze si mescolano in un intreccio fisso. A voler tentare una sintesi delle cinquecento e passa pagine del rapporto si può affermare che nell’Italia che ha ripreso a crescere il Sud arranca un po’, con la classica situazione a macchia di leopardo. E la Calabria appare ferma.
Lo ribadiscono alcuni indicatori, in particolare l’agricoltura (meno 10% di occupati nel settore, che pure da noi pesa il 4% del Pil, il doppio rispetto al resto del Paese) e l’informatica, gravata da una forte persistenza del digital divide.
Eppure, come tutte le situazioni croniche, le possibilità di miglioramento non mancano. Anzi. Più che le “lacrime e sangue”, ci aspettano gli sforzi, che potrebbero essere efficaci grazie all’iniezione di fondi del Pnrr.
Lo spiega Amedeo Lepore, professore ordinario di Storia economica presso l’Università Vanvitelli di Napoli, docente di Economia presso la Luiss e membro del cda di Svimez, per cui ha curato la parte relativa alla bioeconomia del Rapporto 2021.
Iniziamo dall’informatica, in cui il digital divide e l’analfabetismo tecnologico sembrano inchiodare il Sud rispetto al resto del Paese. La Calabria, addirittura, mostra una situazione contraddittoria: è la regione in cui sono stati effettuati massicci investimenti. E tuttavia, il numero di persone che non accedono ai servizi digitali resta elevato…
«A dire il vero, la contraddizione non è solo calabrese e meridionale. La pandemia ha senz’altro stimolato l’uso dei sistemi informatici, in misura nettamente maggiore che in passato. Tuttavia, si segnala un forte rallentamento proprio nel settore digitale, a partire dalla contrazione degli acquisti».
In pratica, le persone sono andate di più su internet ma hanno acquistato meno device. È così?
«In maniera grossolana, sì. Il calo non è da poco: meno 16% al Sud».
Eppure il Sud ha molta fibra e la Calabria è una delle zone più cablate in Europa.
«Il problema non riguarda tanto le infrastrutture, che erano centrali fino a qualche anno fa. Il gap dipende dalla differente geografia economica, determinata da strutture industriali molto diverse. Il maggiore investitore nell’informatica risulta la pubblica amministrazione, che ha speso complessivamente il 35% in più».
E i privati?
«Le aziende di grandi dimensioni hanno speso l’1% in più. Il problema vero riguarda le piccole imprese, che hanno speso il 5% in meno. Va da sé che il Nord, in cui la presenza di grandi imprese è nettamente maggiore risulti il maggior investitore e fruitore di mezzi e servizi informatici».
Ma questo trend si può modificare?
«Senz’altro: il dato su cui abbiamo ragionato non è assoluto, ma è suscettibile di una certa evoluzione, dovuta alla crescita delle piccole e medie imprese e delle startup. In questo caso, la divisione tradizionale Nord-Sud cede il passo a una situazione a macchia di leopardo: la prima regione per nuove startup è senz’altro la Lombardia. Ma le altre quattro sono meridionali: nell’ordine, Lazio, Campania e Calabria».
Ma resta ancora molto da fare.
«L’aspetto positivo è che molte imprese ed enti stanno facendo sforzi notevoli e c’è da dire che anche le Università, soprattutto al Sud, sono in prima linea nel processo di informatizzazione».
Tuttavia, le pubbliche amministrazioni calabresi sono al palo per quel che riguarda l’informatizzazione dei servizi.
«La bassa informatizzazione è la punta d’iceberg di un problema generale che coinvolge tutte le pa e che al Sud e in Calabria pesa di più: il ricambio generazionale. L’indice di ricambio, a causa dei tagli e del blocco del turnover è di 1. E ciò genera un forte gap culturale, che si esprime con due elementi: l’età media alta dei dipendenti pubblici e il livello non elevato dell’istruzione. La quantità dei dipendenti comunali muniti di laurea supera raramente il 30%. Nel Mezzogiorno questa situazione pesa di più, perché gli enti locali sono in crisi finanziaria cronica e quindi il ricambio risulta più rallentato che altrove».
E come se ne esce?
«Di sicuro con un soccorso delle amministrazioni centrali. Ma anche i Comuni devono fare la loro parte. Anzi, la maggior parte dello sforzo grava sugli enti territoriali, che devono elaborare piani di risanamento seri e rifare da capo le proprie piante organiche».
Anche in agricoltura i dati del Rapporto 2021 sono particolari: da un lato, alcune regioni, Basilicata e Campania, sono in crescita occupazionale, la Calabria arretra in maniera forte.
«L’agricoltura è un settore su cui il Pnrr investe molto, perché sta tornando al centro del sistema produttivo grazie all’innovazione tecnologica. Penso, in particolare, all’agroindustria e all’agrifood, che in alcune zone sono in netta crescita, ad esempio in Puglia. Anche in Calabria vi sono realtà positive che lasciano ben sperare».
Lei, in particolare, insiste sulle potenzialità della bioeconomia.
«È un’intuizione importante ma non nuova. Il primo che tentò di connettere l’agricoltura alla chimica fu Raul Gardini, che anticipò, appunto, i processi di bioeconomia circolare. Oggi la crescita delle tecnologie rende applicabili questi processi su scale enormi, con un evidente beneficio potenziale per il Sud».
Come?
«Attraverso la combinazione dell’uso di fonti energetiche rinnovabili, di cui il Sud è ricchissimo, procedure hi tech (si pensi all’uso dei sensori per l’irrigazione di precisione) e la produzione di materiali biodegradabili per uso industriale. In pratica, si metterebbero assieme gli elementi base dell’economia circolare, basata sul riutilizzo virtuoso più che sul semplice consumo, e della green economy. Questo mix consente di ottenere una forte innovazione e comporta un salto di qualità».
In che modo può incidere il Pnrr in questa crescita?
«Diciamo subito che al Sud spettano 82 miliardi, più il 50% degli investimenti su base regionale. Che non è davvero poco. Al riguardo, sorge spontaneo il paragone con la vecchia Cassa del Mezzogiorno, che stimolò importanti investimenti e contribuì a ridurre la forbice tra le due parti del Paese. Anche in questo caso, occorre un intervento straordinario che crei le precondizioni per questo salto, indispensabile non solo per la Calabria e per il Mezzogiorno, ma per tutto il sistema Paese».
In pratica, è un modo di dire che se cresce il Sud cresce il Paese?
«Sì. Il Centronord è saturo di investimenti ed è al massimo della produttività. Se il Sud riesce ad avere una crescita apprezzabile sui volani di cui abbiamo parlato, stimolerà a sua volta una crescita di tutto il sistema, con benefici enormi».
Anche lo smart working può contribuire attraverso la delocalizzazione del lavoro?
«Sì, ma non nella misura in cui si crede comunemente. Innanzitutto, ci sono attività che possono essere svolte solo in determinati posti. Poi, non tutte le attività intellettuali (quelle a cui si prestano meglio le modalità smart) possono funzionare in telelavoro».
Resta il grosso nodo, che più dei divari economici, continua a dividere il Paese: le infrastrutture.
«In questi casi occorre sviluppare non solo le infrastrutture longitudinali, ma è necessario incidere anche sulla latitudine. Soprattutto per quel che riguarda il Mezzogiorno, la direttrice est-ovest è altrettanto importante di quella nord-sud, perché può mettere in contatto, ad esempio, realtà produttive importanti e far comunicare tra loro i porti».
Che comunicano piuttosto poco, come Gioia Tauro, ad esempio…
«Nel Pnrr sono previsti 600 milioni per le Zes e per infrastrutturare le aree portuali. Al riguardo, è significativo l’investimento fatto in Irpinia, per collegare con efficacia l’area industriale agli sbocchi adriatici attraverso la Puglia. Anche la Calabria può entrare benissimo in questo sistema. I miracoli non esistono, ma si può fare tanto per crescere. Basta volerlo e saperlo fare».