Carmine Abate: «L’Arbëria è un miracolo di resistenza»

Con i suoi libri, tradotti in tutto il mondo, ha fatto conoscere gli arbëreshë lontano dai confini calabresi. Un viaggio con lo scrittore di Carfizzi nella più grande minoranza culturale e linguistica italiana attraverso parole, tradizioni e riti

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Una nazione in un’altra nazione, un luogo dove il popolo albanese arrivato quasi seicento anni fa si è integrato con quello calabrese che abitava già lì, mescolandosi ma preservando cultura, lingua e valori della terra d’origine. È l’Arbëria e ha accolto la più grande minoranza culturale e linguistica d’Italia, che proprio in Calabria ha trovato la sua terra d’adozione con decine di paesini, specie nel cosentino, popolati dagli arbëreshë, eredi del condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg e delle sue truppe che attraversarono il mare per sfuggire agli ottomani.

La lingua del cuore e quella del pane

«Un miracolo di resistenza» secondo Carmine Abate, lo scrittore arbëresh nativo di Carfizzi (KR) che dai tempi de Il ballo tondo (1991, ora Oscar Mondadori e in uscita negli Usa) ai giorni nostri ha fatto conoscere al grande pubblico questo mondo in cui per comunicare si usano due lingue: quella del cuore, gjuha e zemrës, ereditata dai propri antenati e quella del pane, gjuha e bukës, l’italiano che imparano a scuola tutti i bambini, siano essi albanofoni o litìri (latini).

«Sono entrambe importanti, ma la prima è più radicata in noi. Gli arbëreshë non si sono chiusi a riccio cercando di difendersi da un mondo che voleva annullare la loro identità, si sono aperti all’esterno fin dall’inizio. È come se avessimo paura di perderci perdendo la nostra lingua e per questo – in modo più o meno consapevole – cerchiamo di resistere all’omologazione. La più alta forma d’integrazione è aprirsi agli altri restando se stessi. Lo facciamo da mezzo millennio, è la nostra forza».

Ed è proprio dalle parole che partiamo con Carmine Abate alla scoperta dell’Arbëria, perché sono la chiave per comprenderne i valori tramandati nei canti rapsodici: la besa, che è il rispetto della parola data, o la mikpritia, l’ospitalità. «Da noi è davvero sacra, tant’è che si dice: all’ospite bisogna fargli onore, nder, offrendogli pane, sale e cuore. A San Demetrio Corone, la commemorazione dei defunti avviene tra febbraio e marzo ed è un rito antico che termina in un banchetto sulle tombe».

Sapori che si fondono

Diversi i piatti tipici: «A Carfizzi si prepara furisishku, una zuppa di fiori di zucca, zucchine, patate, fagiolini, pane e olio. Ma le pietanze tradizionali per eccellenza sono shtrydhëlat, un gomitolo di pasta filata fatta in casa, condita con fagioli bianchi, olio aglio e peperoncino e dromësat, che sembra un risotto ma è fatto da grumi di farina cotti nel sugo di carne. Altre portate sono simili a quelle calabresi, è normale che ci sia stata una mescolanza nel tempo; a Lungro, addirittura, si beve il mate, una tradizione importata dagli arbëreshë emigrati in Argentina. Io però per assaggiare la nostra cucina consiglio di andare a Firmo e a Civita. Quando erano piccoli portavo i miei figli alle gole del Raganello, un posto incantevole, e poi risalivamo in paese per mangiare in uno dei ristoranti tipici».

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Il ponte del diavolo a Civita si affaccia sulle gole del Raganello
Donne e uguaglianza

Civita, da anni nell’elenco dei borghi più belli d’Italia, con le sue case Kodra dalle facciate antropomorfe e i loro buffi comignoli è anche il posto migliore per gustarsi, nel cuore del Parco nazionale del Pollino, uno spettacolo arbëresh «assolutamente da vedere»: le vallje. «Sono le danze tradizionali di Pashkët, la Pasqua, e le donne arrivano da molti paesi dell’Arbëria per ballare indossando le cohe, costumi tipici che cambiano da paese a paese usati nelle occasioni più importanti. Abiti bellissimi, cuciti con fili d’oro e stoffe preziose. Un tempo venivano dati in dote a tutte le ragazze, c’era una sorta di uguaglianza nel paese».

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«A Carfizzi – prosegue Carmine Abate – ne abbiamo ancora pochi, ma a Vaccarizzo, Santa Sofia d’Epiro e Frascineto ci sono dei musei in cui è possibile ammirarli in tutta la loro bellezza e varietà. I più belli una volta venivano considerati quelli di Caraffa, un paesino arbëresh del Catanzarese. Le cohe rappresentano un legame tra la donna e la sua patria d’origine e purtroppo quelle più antiche si sono quasi tutte perse per via di un’altra tradizione: già quando ero bambino erano sempre meno le zonje, le signore, che uscivano col vestito tradizionale perché quando morivano venivano sepolte con l’abito di gala indossato al matrimonio».

Preti con moglie e figli

Le cerimonie religiose in Arbëria, d’altra parte, si discostano di molto da quelle del resto d’Italia. «Il rito bizantino purtroppo si è perso in diversi paesi – tra cui il mio, alla fine del ‘600 – perché i vescovi costringevano gli arbëreshë ad abbracciare quello latino. Specie in provincia di Cosenza, però, si è mantenuto il rito di una volta. Le chiese dipendono dal Papa, ma vi si pratica ancora la liturgia greco-bizantina con la messa celebrata in arbëresh e i preti possono sposarsi e avere figli. Questi magnifici papàs sono figure di rilievo ed è soprattutto grazie a loro che in passato, oltre alle tradizioni, si sono mantenute vive la lingua e la cultura. Proprio per salvaguardare queste ricchezze abbiamo chiesto all’Unesco il riconoscimento della cultura immateriale degli albanesi d’Italia come patrimonio dell’umanità».

Mosaici e oro

La differenza tra le due forme di cristianesimo balza agli occhi entrando nei luoghi di culto. «Le chiese sono dei veri e propri capolavori artistici con i loro mosaici favolosi. A Lungro c’è la bellissima cattedrale di San Nicola di Mira, sede dell’eparchia, con i mosaici realizzati dall’artista albanese Josif Droboniku. E ad Acquaformosa incanta la chiesa di San Giovanni Battista con le pareti ricoperte da tasselli d’oro. Bisogna visitare anche quella millenaria di Sant’Adriano e il collegio, dove si sono formate generazioni di arbëreshë e non solo, a San Demetrio Corone».

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La chiesa di San Giovanni Battista ad Acquaformosa

O, se si passa di lì in estate, andare al Festival della canzone arbëreshe: «Anno dopo anno spinge i nostri musicisti a scrivere e cantare in arbëresh. Vi è anche un importante recupero dei canti tradizionali, alcuni famosi anche in Albania, e dei valori che ci accomunano. Ma davvero tutti i paesi arbëreshë meritano di essere visitati, da Cerzeto a Spezzano Albanese, da Vena di Maida a San Giorgio, per citare gli ultimi in cui sono stato».

I luoghi del cuore

Il percorso del cuore però, per uno che come Carmine Abate è profeta in patria – Carfizzi gli ha intitolato un parco letterario dove trovare, oltre alle opere di Abate in numerose traduzioni, molte informazioni sulla cultura arbëreshe – e non solo, non poteva che passare dai luoghi dell’infanzia. «Ne parlo nei miei libri: parte proprio dalla casa in cui sono nato, nel Palacco, e attraverso il parco conduce alla Montagnella, un luogo simbolo equidistante da San Nicola dell’Alto, Carfizzi e Pallagorio, dove da più di cent’anni questi tre paesi arbëreshë del Crotonese festeggiano il Primo Maggio. Poi dalla Montagnella si può attraversare l’omonimo parco e scendere alla cascata del Giglietto; da lì si segue una fiumara ai cui bordi si trovano i ruderi di antichi mulini in cui ho ambientato il romanzo Il bacio del pane».

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Primo maggio alla Montagnella
Mare nostro

Proseguendo lungo la strada si arriva a Cirò Marina, un luogo speciale per Carmine Abate. «Lì da bambino vidi mia nonna baciare la riva del mare: su quella spiaggia, secondo lei erano sbarcati i nostri antenati, un gesto di grande valore simbolico che mi ha segnato. Quasi tutti i paesi arbëreshë sorgono, come il mio, su colline affacciate sulla costa. E io immagino i profughi albanesi che, arrivati dopo un lungo viaggio tra la piazza e l’attuale Largo Scanderbeg, hanno visto il mare e si sono voluti fermare lì, ripopolando il mio paese. Il mare per gli arbëreshë è una via di fuga, ma soprattutto la via da cui sono venuti. Lo Jonio per noi è deti jon, che vuol dire mare nostro: il mare nostrum degli antichi noi ce l’abbiamo pure nella lingua del cuore».

Carmine Abate, scrittore arbëresh tradotto in tutto il mondo, ha messo l’incontro tra culture al centro della sua opera e del suo stile. È autore di romanzi e racconti di successo. Tra i suoi libri più noti: La moto di Scanderbeg, Tra due mari, La festa del ritorno, Il mosaico del tempo grande, Gli anni veloci, Vivere per addizione e altri viaggi, La collina del vento (Premio Campiello 2012), Il ballo tondo, Le stagioni di Hora, Il bacio del pane, La felicità dell’attesa, Le rughe del sorriso.

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