C’è un modo particolare con cui i massoni si definiscono da sempre (oltre al gettonatissimo Liberi Muratori): Figli della Vedova.
Nel caso di Francesco Saverio Salfi, l’espressione calza a pennello. Non (solo) per la sua conclamata militanza massonica. Nato il Capodanno del 1759 da una famiglia cosentina umile, Salfi fu adottato e allevato per davvero da una vedova, che lo fece studiare da prete
Probabilmente risale a questa formazione l’innesco delle contraddizioni di Salfi: la formazione rigorosa, appresa dai gesuiti, e l’anticlericalismo stimolatogli, forse, dalla rigidità di quel tipo di insegnamento.
Nel quale c’è un’eccezione vistosa, che passa ancora attraverso la Chiesa: l’illuminismo, appreso dal canonico Francesco Saverio Gagliardi, e da Pietro Clausi, suo prof di matematica e filosofia. Clausi, a sua volta, è allievo di un altro illustre prelato: Antonio Genovesi, filosofo e pioniere dell’Economia politica.
La personalità complessa di Salfi, che inizia la sua carriera di prete nel segno della ribellione, è il prodotto delle contraddizioni della sua epoca. Contraddizioni della società, della Chiesa e della monarchia, in questo caso borbonica.

Il Re Nasone e le riforme mancate
I Borbone avevano cominciato piuttosto bene, a Napoli e al Sud. Salfi nacque un anno dopo che don Carlo di Borbone aveva lasciato il Regno per ereditare la corona di Spagna.
Al suo posto era salito al trono Ferdinando IV (per capirci, ’o Re Nasone), che prometteva niente male per i riformatori dell’epoca. Infatti, sulla scia paterna, re Ferdinando posava a protettore della laicità dello Stato e degli intellettuali. Questo atteggiamento formalmente illuminista divenne esplicito nel 1878, col rifiuto del re di pagare la chinea, un tributo di sottomissione feudale, allo Stato Pontificio.
Tutta (o quasi) l’intelligentsia napoletana si schierò con la Corona. E il fatto che in questa élite ci fossero molti religiosi, non deve meravigliare: l’attrito tra dinastia borbonica e papato rifletteva la rivalità tra l’alto clero napoletano, di antica tradizione e geloso delle sue prerogative, e l’estabilishment pontificio.
Discorso simile per l’illuminismo. Questo filone, oggi considerato dal solo punto di vista rivoluzionario, ebbe un ruolo importantissimo nell’Ancien Regime: in Prussia come in Austria e, ovviamente, nella vivacissima Napoli dell’epoca. L’illuminismo nasce in salotto e, solo in seguito al trauma della Rivoluzione, finisce sulle barricate.
Viceversa, i Borbone furono inizialmente tolleranti e solo la rottura rivoluzionaria li spinse ai terribili giri di vite per cui sono passati alla storia.

Un pensiero che nasce tra le scosse
Gli intellettuali seguono, più o meno, lo stesso tragitto. Nascono riformisti e fidano nella forza della Corona per realizzare le proprie idee. Una volta delusi, si danno alla fronda e poi entrano in rottura, fino a farsi tentare dall’esperimento tragico della Repubblica Napoletana.
E Salfi? Il suo pensiero nasce maturo, grazie a una tragedia senza pari: il terremoto che sconvolge Messina e il sud della Calabria nel 1783.
Tre anni dopo, il giovane sacerdote, che tiene banco all’Accademia dei Costanti (l’antenata dell’Accademia Cosentina), scrive il Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto, in cui stigmatizza il comportamento superstizioso delle autorità religiose e invoca invece politiche urbanistiche, pubbliche e private, di prevenzione.
È quanto basta per attirare su Salfi l’ostilità dei vertici ecclesiastici, che vorrebbero mandarlo sotto processo. La fa franca, grazie alla protezione di Carlo de Marco, magistrato e ministro degli Affari ecclesiastici di re Ferdinando.
Ma per lui l’aria a Cosenza si è fatta pesante. Perciò nel 1787 molla le rive del Busento e si trasferisce a Napoli. E lì inizia a fare davvero sul serio.

Napule è
Ancora i rigori (e gli eccessi) controrivoluzionari sono lontani a Napoli. Al contrario, c’è un bel giro di intellettuali.
Tra questi, i giuristi Gaetano Filangieri e Mario Pagano e due religiosi inclini alle tesi liberali: il calabrese Antonio Jerocades e il partenopeo Nicola Pacifico. Tutte teste belle, ma un po’ calde. L’ideale per uno come Salfi. Che subito si fa notare: difende la casa reale di fronte alla Chiesa. E, per tutta risposta, re Ferdinando promuove la sua nomina ad abate.
Poi le cose cambiano con la Rivoluzione francese, che segna una profonda rottura tra i Borbone e il ceto intellettuale napoletano, e l’intellettuale cosentino si mette a trescare alla grande.
Salfi e la superloggia di Posillipo
Un’invasione francese e una cena a Posillipo.
Nel 1792 il Regno di Napoli e la Francia sono ai ferri corti. E quest’ultima manda una flotta a bloccare il porto e il Golfo per regolare dei gravi incidenti diplomatici. La comanda il francese Luis de Latouche-Treville, eroe dell’indipendenza americana e massone.
La prova di forza tra la giovane Repubblica e il Regno è impari e la regina Maria Carolina, sebbene odi i jacubbine (responsabili della morte di sua sorella Maria Antonietta di Francia), è costretta a cedere. Latouche resta a Napoli un mese buono, a cavallo tra 1792 e 1793. E ne approfitta per mettere assieme un bel gruppo cospirativo assieme al matematico Carlo Lauberg: la Società patriottica napoletana, costituita durante una cena a Posillipo, in cui confluiscono tutte le logge massoniche della città e a cui si uniscono Salfi, Jerocades, Pagano e via discorrendo. Poi i francesi vanno via e i Borbone iniziano la repressione, che disarticola il gruppo nel 1794. Molti giacobini finiscono in galera (ben 52) e qualcuno al patibolo (8). Chi può scappa: è il caso di Lauberg e Salfi, il quale decide di svernare in Calabria.

Salfi al seguito dei “franzosi”
In Calabria, Francesco Saverio Salfi resta un annetto buono, giusto il tempo di scampare all’inchiesta. Poi rientra a Napoli, ma è isolato e rischia grosso: la polizia borbonica ha riaperto il dossier e stavolta è uscito il suo nome.
L’espatrio diventa un obbligo: grazie all’aiuto del diplomatico François Cacault trova lavoro al Consolato francese di Genova. Lì si spreta e riprende a trescare assieme a teste ancora più calde di quelle lasciate a Napoli. Tra queste, il toscano Filippo Buonarroti. I due raggiungono Milano, nel frattempo occupata dai francesi, e si danno al giornalismo e ai complotti, dentro e fuori le logge, assieme a tutti gli esuli del Sud.
Questa lobby meridionale scommette su un astro nascente: Napoleone Bonaparte e spera, per la prima volta, che le armate rivoluzionarie uniscano l’Italia. Forse la parola Risorgimento nasce in questo ambiente. Di sicuro la usa molto Salfi, negli articoli che redige per il Termometro politico della Lombardia e nelle missive che invia alle autorità francesi.
Salfi torna a Napoli
Vedi Napoli e puoi muori, dice l’adagio. E per molti intellettuali che scommisero sull’esperienza esaltante, ma effimera, della Repubblica Napoletana, fu così.
Salfi, invece, scampò per il rotto della cuffia.
Ma è il caso di ricostruire con ordine.
Il rivoluzionario cosentino torna nel Regno, stavolta non da solo, ma al seguito dell’Armata di Napoli, cioè la divisione dell’esercito francese guidata dal generale Jean Étienne Championnet, che sbaraglia i napoletani sotto Roma e poi invade la Capitale del regno.

Ferdinando IV abbandona Napoli il 21 dicembre 1798. Il 20 gennaio successivo, è proclamata la repubblica a Napoli, che sopravvive grazie alle truppe francesi ed è minacciata da subito dai Sanfedisti del Cardinale Ruffo.
I francesi, privi della guida di Napoleone, bloccato in Egitto con le sue truppe, sono costretti ad arretrare e, alla fine, abbandonano Napoli, che capitola il 30 giugno 1799.
In questi sette mesi, tuttavia, la classe dirigente giacobina dà il meglio di sé. Stimola a fondo la vita culturale, grazie al Monitore Napoletano, diretto da Eleonora Fonseca Pimentel, e progetta riforme radicali, tra cui l’abolizione del feudalesimo e una Costituzione, simile a quella francese del 1793, ma con una novità: l’Eforato, una specie di Corte costituzionale avant la lettre.
Di questa élite, in cui spicca il giurista Mario Pagano, fa parte una nutrita pattuglia di calabresi, tra i quali il grecista Pasquale Baffi e, appunto, Salfi che vi svolge la delicata mansione di segretario.
Pericolo (di nuovo) scampato
È nota la tragica fine della Repubblica Napoletana: i giacobini capitolano. E i Borbone si comportano malissimo. Prima danno ampie garanzie di equità e mitezza, poi si rimangiano la parola e scatenano una rappresaglia che assume le forme di un pogrom.
Processi sommari, esecuzioni in piazza e cadaveri esposti.
Ma, quel che è peggio, via libera agli eccessi, dei lazzari e dei “calabresi” al seguito di Ruffo. Questi scatenano una caccia all’uomo per le vie di Napoli ai sostenitori, reali o presunti, della fallita rivoluzione. La situazione sfugge al controllo di Ruffo, già contrario elle esecuzioni sommarie, e la città finisce in preda ad orrori di vario tipo, inclusi atti di cannibalismo.
Anche Salfi finisce nelle retate borboniche, ma dà false generalità e viene liberato. E scappa, stavolta in Francia.

Di nuovo in Italia
Francesco Saverio Salfi rimette piede in Italia l’anno successivo. Dapprima a Brera, dove insegna storia e diritto al Ginnasio, e poi a Brescia e a Milano, dove si dà un gran da fare nelle logge locali.
Infatti, milita nell’“officina” Amalia Augusta ed è maestro venerabile della loggia Gioseffina. In questa fase, l’intellettuale calabrese si lega a Gioacchino Murat, di cui diventa consigliere. E ne segue le sorti: la disfatta dei napoleonici lo costringe a tornare in Francia, dove trascorre gli ultimi anni della vita insegnando e scrivendo.
Il suo ultimo gesto rivoluzionario è il Proclama al popolo italiano dalle Alpi all’Etna, firmato da tutti i fuorusciti, a partire da Filippo Buonarroti.
In questo documento compaiono tre parole chiave: unità nazionale, libertà, repubblica.
Le farà proprie un astro nascente del Risorgimento: Giuseppe Mazzini. Ma stavolta Salfi non ha alcun ruolo. Il patriota genovese, infatti, esclude i “vecchi” dalla sua Giovane Italia. Nel farlo, manda una lettera di scuse a Salfi. Ma il calabrese non la leggerà mai, perché muore poco prima che gli arrivi. È il 2 settembre 1832.

Una grandezza misconosciuta
Celebrato in vita dai circoli rivoluzionari, Francesco Saverio Salfi ha avuto una fortuna postuma “di nicchia”, di sicuro inferiore ai suoi meriti.
Oggi non c’è comunione massonica che non abbia almeno una decina di logge dedicate a lui e continua a essere oggetto di attenzione degli specialisti.
Tuttavia, l’intellettuale cosentino non ha mai avuto una fama “pop”.
Giusto per fare un esempio, si pensi che Salfi è citato solo tre volte e sempre di sfuggita in Il resto di niente, il bel romanzo storico di Enzo Striano (1986) dedicato a Eleonora Fonseca Pimentel, ed è tagliato fuori dal film ad esso ispirato (2004).
Eppure il cosentino ebbe un ruolo di primo piano nella Repubblica Partenopea e in tutti i movimenti prerisorgimentali. Salfi e la sua generazione scontano una “maledizione” particolare.
Loro sono gli ultimi esponenti dell’illuminismo in una fase in cui la cultura (rivoluzioni comprese) parlava e pensava con i canoni del romanticismo. Sono intellettuali convertiti alla rivoluzione perché delusi dall’incapacità (e dalla cattiva volontà) riformatrice delle vecchie dinastie. Ma finiscono comunque stritolati dalla Francia rivoluzionaria, che si serve di loro ma li controlla e, quando può, li censura.
Le rivoluzioni di fine ’800 cambiano registro e velocità di marcia. E per i superstiti come Salfi non c’è più posto.
Il cosentino è morto rimosso e dimenticato. Al punto che anche della sua tomba si era persa traccia per oltre 150 anni. Finché un altro cosentino, lo storico Luca Addante, l’ha ritrovata a inizio millennio.