Quattro terre dei fuochi nel nord della Calabria

Dal sogno dell'industrializzazione all'incubo del disastro ambientale: in provincia di Cosenza i territori avvelenati dalle fabbriche ormai chiuse attendono ancora verità e bonifiche

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Sono crateri capovolti, piccoli vulcani artificiali che eruttano al contrario. Ogni tanto sbuffano, quasi sempre rilasciano sostanze nocive nell’aria, nei fiumi, nelle falde acquifere. In provincia di Cosenza esistono quattro “terre dei fuochi” dimenticate. Forse sarebbe più corretto definirli “fuochi nelle terre”, per quanto sono invisibili e nascosti nel sottosuolo. Nessuno s’azzarda più a misurare la febbre delle aree contaminate nostrane. Una certa stanchezza, frutto dell’impotenza, sembra prevalere persino tra gli abitanti di queste zone.

Mobilitazioni e processi

In passato, si organizzavano in comitati di protesta per denunciare l’elevato tasso di tumori e invocare le bonifiche. Col tempo, l’oblio ha fiaccato quelle mobilitazioni. E oggi a sollevare il problema rimangono in pochi. Così, tra archiviazioni, stralci, prescrizioni e assoluzioni, si sono dispersi in mille rivoli anche i procedimenti giudiziari che avrebbero dovuto accertare le responsabilità.

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Una manifestazione ad Amantea per chiedere la verità sui danni ambientali nel territorio (foto Francesco Cirillo)

Al momento, non c’è un solo politico, un ecomafioso, un imprenditore o uno dei loro servitori che abbia pagato per i disastri ambientali di Praia, Amantea, Montalto e Cassano. Non uno dei tanti imputati nei vari processi ha subito una condanna. Bravura dei difensori, inadeguatezza delle procure o sostanziale impunità per chi inquina? Sia in primo grado che in appello è arrivata l’assoluzione per tutti e 12 i responsabili della Marlane di Praia dalle accuse, a vario titolo, di lesioni gravissime, omicidio colposo plurimo e disastro ambientale. Negli anni Novanta, il primo a produrre inchieste su questa drammatica vicenda fu lo scrittore e mediattivista Francesco Cirillo.

Un accordo con le famiglie dei morti

Centinaia di operai si sarebbero ammalati di cancro a causa delle esalazioni dei coloranti adoperati nell’azienda tessile e dell’amianto presente nei freni del telai. In precedenza, Eni-Marzotto aveva stipulato un accordo con le famiglie degli operai deceduti, ottenendo la revoca delle costituzioni di parte civile, a ciascuna delle quali aveva versato tra i 20mila e i 30mila euro. Già il 4 aprile 2020, nel motivare l’annullamento, per gli effetti civili, della sentenza a suo tempo emessa dalla corte d’Appello di Catanzaro, la corte di Cassazione ha stabilito che la dichiarazione di intervenuta prescrizione dei delitti di omicidio colposo pluriaggravato «è frutto di erronea applicazione della legge penale».

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Il problema delle bonifiche

Rimane comunque il problema della bonifica dei terreni che sarebbero stati interessati dai presunti scarichi abusivi di sostanze chimiche provenienti dalla fabbrica. Nel settembre 2017 la procura di Paola ha disposto nuovi accertamenti. A sollecitare un ulteriore approfondimento sono stati i comitati ambientalisti. Sul Tirreno cosentino, che si tratti delle migliaia di fanghi da depurazione scaricati in mare o delle perizie sulle sostanze inquinanti presenti nelle falde acquifere, serpeggia il sospetto che taluni soggetti istituzionali non vogliano o non riescano a vedere l’evidenza.

 

Territorio in pessima salute

Sebbene gli esperti, chiamati a pronunciarsi nell’ambito dei processi che si stanno celebrando, certifichino un pessimo stato di salute delle acque e dei terreni, pare che non ci siano autorità disposte a prenderne atto. Già nel 2007 si rilevava infatti la presenza di materiali cancerogeni nel sottosuolo. La professoressa Rosanna De Rosa, del Dipartimento di Geochimica e Vulcanologia dell’Università della Calabria, registrava valori molto alti di cromo, nichel, piombo e arsenico.

Un anno dopo, nella relazione di consulenza tecnica disposta dalla procura di Paola, nell’evidenziare i rischi per la salute umana, il dottor Giacomino Brancati precisava che «solo un intervento specifico di rimozione dei contaminanti da quell’ambiente potrà mitigare, persino fino ad annullarla, l’entità di ogni accertato pericolo».

I contaminanti spariscono

Nel settembre 2018, a seguito dell’incidente probatorio nell’ambito del nuovo procedimento penale (oggi in fase di indagini nel tribunale di Paola) a carico dei dirigenti Marzotto per fare luce sulla morte di altri 50 operai e su 10 superstiti affetti da tumore, i professori Ivo Pavan e Alessandro Gargini hanno espletato la perizia con campionamenti nell’area antistante lo stabilimento e al confine con le abitazioni di Praia, rilevando nelle falde acquifere la presenza di tricloroetilene e cobalto. Eppure, nel piano di caratterizzazione del 2018 per la bonifica del territorio dai veleni della fabbrica Marlane, queste sostanze non ci sono più.

L’Arpacal cambia idea

Qualcuno si chiede se l’Arpacal, nel ratificare il piano, non abbia dimenticato cosa aveva firmato solo qualche tempo prima. Escludendo la presenza di extraterrestri nelle profondità della terra, non è fantascientifico capire da dove arrivino queste sostanze dannose. Annullata, per gli effetti civili, la sentenza del 2017 della corte d’Appello di Catanzaro, e accogliendo il ricorso dell’avvocato Lucio Conte, la corte di Cassazione ha ordinato il calcolo del risarcimento danni a favore del comune di Tortora, parte civile nel processo. L’udienza si terrà il prossimo 24 novembre.

Il fiume Oliva

Anche per i veleni individuati nella valle del fiume Oliva, ad Amantea, dai tribunali sono emersi giudizi di innocenza, ma centinaia di metri cubi di scorie industriali rimangono sotto terra. Non se ne conosce la provenienza. Qualcuno ipotizzò che a scaricarli sia stata una delle famigerate navi dei veleni. Ma le inchieste giudiziarie non hanno confermato questa ipotesi. Rodolfo Ambrosio, avvocato di Legambiente, ricorda un episodio inquietante.

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La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea

«In occasione di un sopralluogo con la troupe del Tg2 Dossier – racconta – ci avvicinò un signore anziano che aveva lavorato come camionista per alcune ditte edili note e locali. Ci disse che per interrare i materiali inquinanti loro raccoglievano la terra scavata fino a 40 metri di profondità per poi venderla di risulta ad imprese che la pagavano. Essendo presenti altri colleghi avvocati, la polizia giudiziaria, medici e tecnici, abbiamo concordato sulla necessità di un supplemento di perizia per verificare cosa ci fosse tra i sette metri nei quali scavò la procura e i 40 indicatici dal camionista. Quando la procura ci ha sentiti, lo abbiamo ribadito e siamo ancora in attesa delle risultanze e di un eventuale sbocco penale per un secondo procedimento».

Il ruolo della Regione

Oltre alla ricostruzione della verità storica e giudiziaria, rimane l’annoso problema delle bonifiche. «Si è parlato tanto, troppo dell’Oliva – spiega Gianfranco Posa, portavoce del comitato “De Grazia” -. La Regione, che ha la responsabilità di bonificare o mettere in sicurezza l’area, non è mai concretamente intervenuta, trincerandosi dietro l’analisi del rischio elaborata da Ispra e Arpacal che in buona sostanza dice che i veleni dell’Oliva “ce li siamo già mangiati”, ovvero hanno già prodotto i loro effetti negativi sulla popolazione ma, che adesso, non sono più pericolosi».

«In realtà l’analisi del rischio – aggiunge Posa – è frutto di un lavoro durato anni che ha visto col tempo cambiare i risultati delle analisi chimiche spesso con risultati contrastanti tra quelli elaborati dagli enti pubblici e quelli dei consulenti dell’autorità giudiziaria. Ma la verità – come ribadisce anche l’analisi del rischio nella parte finale – è che i rifiuti nell’alveo di un fiume non ci possono stare e vanno rimossi o messi in sicurezza».

Il Pnrr per mettere in sicurezza il territorio

E poi c’è la popolazione che si è stancata di sentir parlare di questa zona, votata al commercio e al turismo, come di un territorio pesantemente inquinato senza vedere mai qualcuno che mettesse in atto soluzioni e pertanto ha allentato la pressione. In merito alle possibili soluzioni, Posa spiega che «si potrebbe attingere ai fondi comunitari ed elaborare un progetto di messa in sicurezza dell’area».

«Il PNRR – aggiunge – sarebbe una buona possibilità per mettere in sicurezza il territorio calabrese, ma temiamo che anche questa occasione andrà persa. La prossima giunta regionale, qualunque essa sia, dovrebbe affidare l’assessorato all’Ambiente a un persona esperta e competente con la giusta sensibilità sulle tematiche ambientali. Qualcuno che abbia tra le sue priorità la soluzione delle tante emergenze ambientali calabresi e che si confronti con chi vive nei territori. Che punti sulla prevenzione, elaborando un adeguato piano dei rifiuti, che favorisca la nascita di impianti che riportino a materia prima i materiali differenziati raccolti. Che provveda al tracciamento dei rifiuti industriali, facendo prevenzione, in modo da rendere difficile lo smaltimento illegale».

Sibaritide: condanne e prescrizioni

Anche nella Sibaritide aleggia da anni un fantasma chimico, quello delle ferriti di zinco provenienti dal sito industriale di Crotone. «In questo caso, persino per me che ogni volta mi costituisco parte civile nell’interesse di Legambiente e Comuni, sta diventando difficile seguire gli infiniti tronconi delle inchieste giudiziarie», spiega l’avvocato Rodolfo Ambrosio.

«Due processi – continua il legale – sono stati celebrati nel tribunale di Castrovillari per gli stessi reati del processo Artemide. Uno si è concluso con due condanne e siamo in attesa della fissazione dell’udienza in corte d’Appello. Per l’altro, invece, sarà celebrata udienza il prossimo 9 novembre. Come si ricorderà, fu de Magistris il titolare della prima inchiesta. E dopo 11 anni di processi e intervenute prescrizioni, furono bonificati i siti contaminati, tra Cassano e Francavilla Marittima, individuati dall’operazione “Artemide”».

«Ma le zone interessate dai due procedimenti in corso – prosegue Ambrosio – sono ancora lì da bonificare e in parte da individuare. Il ministero della Difesa dispone di speciali elicotteri per la mappatura di metalli pesanti o radioattivi sepolti. In operazioni come Cassiopea, che portò alla scoperta di un traffico illecito di materiali inquinanti tra Caserta e Gioia Tauro, ne fu disposto l’impiego. Peccato che il procedimento sia stato archiviato e sebbene si conosca l’ubicazione di tali scarichi in Calabria, non si sia proceduto con la loro rimozione».

Industria e ambiente

Infine, rimangono senza risposte le domande poste negli anni sull’area di Montalto Uffugo. Qui la presenza di agenti inquinanti ha una storia antica. Il nostro giornale è tornato ad occuparsene di recente.

«Anche in questo caso, persistono delle zone d’ombra – racconta l’avvocato Rodolfo Ambrosio -. Ricordo che durante un’udienza del processo da cui uscì assolto, tra gli altri, il sindaco di Rende, su mia domanda un teste riferì che nella zona morirono diverse mucche poste a pascolo. Ciò in contrasto con i rilievi dei tecnici che, pur provando l’inquinamento, lo certificarono sotto i livelli di legge. Vorrei capire come siano possibili i ricorrenti fenomeni di autocombustione in un territorio considerato “a norma».

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Dunque, delle quattro mega-aree contaminate, Montalto e Praia sono le uniche imbottite di materiali che non proverrebbero da siti più o meno distanti. Di sicuro, tutti gli inquinanti sono di origine industriale e non è stata accertata l’entità reale del loro impatto sugli ecosistemi circostanti. Un vero e proprio paradosso, in una regione pressoché estranea al modello produttivo della fabbrica. Senza un ritorno dell’attenzione popolare e democratica su queste vicende, al danno dell’inquinamento si aggiungerà la beffa dell’oblio.

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