«Con tutti questi contagi e la paura di infettarci, stavolta il lockdown ce lo siamo imposto da soli». Amara è la considerazione del tabaccaio in uno dei vicoli del centralissimo Corso Mazzini a Cosenza. Prima della pandemia la sua attività dipendeva anche, ma non solo, da tabagisti e ludopatici. In queste settimane sono le uniche creature che vede comparire davanti al bancone. Ma se le dipendenze sono resilienti, le altre forme di consumo cedono il passo. Strade deserte, abbassate le saracinesche, pub semivuoti, dalle 8 di sera viaggiano soprattutto bici e motorini dei rider, mentre qualche pattuglia della polizia rovista tra i pochi locali aperti per scovare avventori sprovvisti del fastidioso green pass. »È come se la gente avesse frequentato un corso di formazione accelerato per consumare a distanza», medita sconsolato il titolare di uno dei pochi negozi di calzature superstiti.
Dalla soppressata al sushi
Nel giro di due anni sono mutati gli stili di vita. Non più soltanto i ragazzi, ma intere famiglie calabresi, come milioni di altre nel mondo occidentale, sono passate dalla soppressata al sushi, comprano su internet, divorano serie TV sulle piattaforme digitali, praticano fitness in casa, lavorano e studiano davanti al PC. Le nuove attività trainanti sono l’e-commerce, il food delivery, l’e-learning, l’infotainment. Fuori da monitor e display, tutto sembra destinato a sparire o a traslocare in periferia. Se ne sono accorti i gestori di cinema, teatri e piscine, ma soprattutto i commercianti degli storici negozi di abbigliamento nei principali centri urbani: chiusi, falliti, assorbiti dai franchising che spuntano ovunque.
Lavoro e pandemia
Il coronavirus ha contribuito tanto a cambiare il volto delle attività lavorative in moltissime città e nei loro dintorni. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista Regional science and urban economics sulle conseguenze economiche della pandemia, di cui sono coautori Augusto Cerqua e Marco Letta, ricercatori del Dipartimento di Scienze sociali ed economiche della Sapienza di Roma, in alcune zone della Calabria e di altre regioni meridionali i posti di lavoro sarebbero addirittura in crescita. «Se vogliamo capire la rilevanza di questi dati – spiega Cerqua – dobbiamo saperli interpretare. Siamo pervenuti a tale conclusione osservando le differenze quantitative tra la situazione com’è e quella che ci aspettavamo che si sarebbe verificata se il coronavirus non fosse piombato nelle nostre vite. In sostanza, abbiamo confrontato i numeri degli occupati nei settori dei servizi e delle manifatture dopo il primo anno di Covid con le aspettative che avevamo nel 2019 per la fine del 2020 se la pandemia non fosse mai avvenuta».
La sorpresa: Calabria meglio del previsto
In effetti eravamo abituati a veder crescere il lavoro al centro-nord, mentre nel sud, in base alle indicazioni degli anni precedenti, si prevedeva un ulteriore calo dei livelli occupazionali. Nelle zone più periferiche, di solito si perdono posti perché chi le abita tende a emigrare. «Invece, in alcune aree la pandemia ha in parte frenato questi fenomeni migratori. Inoltre – aggiunge Cerqua – i sussidi concessi dal governo hanno incentivato i posti di lavoro. In Calabria si è verificato in media un lieve calo, ovviamente soprattutto nei servizi e nel turismo, ma rispetto alle previsioni è andata molto meglio della media italiana. È diventato difficile operare in tutte quelle attività che richiedono contatti tra tante persone, come hotel, stabilimenti balneari, ristoranti, bar, e in generale tutti gli esercizi commerciali. Al contrario, chi poteva lavorare da casa è stato meno danneggiato dal punto di vista occupazionale ed economico. Soprattutto sono state penalizzate le aree che esportano. Ne ha risentito moltissimo chi esportava in Russia e altri Paesi dell’est. Nella prima fase pandemica è diminuito il trade in generale, anche all’interno dell’Europa, perché si era diffusa una paura che il contagio potesse viaggiare anche con gli oggetti».
Periferie alla riscossa
Tuttavia, a differenza del passato, questa crisi non viene dal manifatturiero. Se la confrontiamo con la grande recessione, quando le più danneggiate furono le aree povere e le manifatture, stavolta ne hanno risentito, ma non tanto quanto i servizi. «La nostra analisi riguarda i territori, non i singoli individui. Chi non ha il paracadute – precisano i due studiosi – è stato pesantemente colpito. Eppure, determinati settori sono cresciuti. Pensiamo al farmaceutico. E dal punto di vista geografico, si sono arricchite le aree non turistiche. Potrebbero beneficiare di questa situazione le zone periferiche. C’è stata infatti una riscoperta delle località più remote, una tendenza a uscire dalle città, abitare in case con giardino, vivere in siti più aperti. Ecco perché potrebbe scaturirne una tendenza a rivitalizzare i territori periferici».
Il lavoro in Calabria dall’inizio della pandemia
In Calabria la mappa tracciata dallo studio effettuato dai due economisti censisce 44 sistemi locali del lavoro, cioè aggregazioni di centri abitati che l’Istat disegna sulla base del fatto che tendenzialmente la maggior parte delle persone vi lavora e vive. Sono quindi gruppi di Comuni scelti in base agli spostamenti lavorativi dei residenti. Stando ai dati elaborati dai due studiosi, Cosenza e zone limitrofe fanno registrare – 2% di occupati nei servizi e circa + 2% nel manifatturiero. Lamezia subisce un bel calo trainato dai servizi: -6,5%, mentre la manifattura esprime un aumento del 3,5%, Reggio Calabria –4% nei servizi e +1,4% nelle manifatture. Fanno registrare segni positivi anche Bovalino, Bianco e Melito Porto Salvo. Gioia Tauro addirittura +8% sul manifatturiero, rispetto alle stime di quel che sarebbe successo senza Covid. Corigliano-Rossano -3% in entrambi i settori. Cassano allo Ionio e Cirò Marina -4% sui servizi. Catanzaro come San Giovanni in Fiore e Scalea: impatto nullo perché le due voci si equilibrano, Soverato –2%, Paola –1%. Tropea è andata peggio di tutti: calo nei servizi pari a -8,5%.
Un futuro diverso
Cosa consigliare dunque alle piccole imprese fallite e ai commercianti rovinati da queste due annate terribili? Quelli che sono ancora in grado di provare a risollevarsi, in quali settori potrebbero investire? Gli autori della ricerca hanno pochi dubbi: «Non crediamo che ci sarà un ritorno alle città. Chi potrà, preferirà vivere nelle aree esterne ai grandi e medi centri. In ufficio, invece di andarci cinque giorni a settimana, ci si recherà magari una o due volte. In tanti lavoreranno in una città ma vivranno in un’altra. Prima della pandemia tutto ciò era meno praticabile. I servizi di food delivery oggi si trovano nei grandi centri urbani, ma presto saranno allargati alle aree marginali. I settori che potranno beneficiare dei nuovi stili di vita e consumo saranno quelli legati alle produzioni biologiche. Stiamo assistendo a un forte focus sulle fonti di energia e sull’economia sostenibile. Col PNRR ci sarà un’accelerata su questi temi. Quindi, in prospettiva, aprire un bar nel centro di Cosenza non parrebbe una grande idea».
Quanto durerà?
Rimangono da capire la durata e la qualità delle nuove occupazioni generate dalla pandemia. Cioè se alcuni sistemi locali galleggino in virtù dei contratti a tempo determinato e degli occupati stagionali, occasionali, saltuari. Sono queste le forme del lavoro riconteggiate all’infinito, com’è abitudine dei recenti governi d’impostazione neoliberista, esperti nel truccare il pallottoliere pur di fare bella figura. Se è abbastanza chiaro quali siano i soggetti che si stanno arricchendo, non è difficile immaginare che in diverse zone della Calabria gli investimenti nei settori in crescita provengano anche dai residui salvadanai della vecchia rendita fondiaria riconvertita e dalle inesauribili casse della multiforme malavita nostrana. Ma tra i commercianti c’è anche chi prova a rialzarsi sulle proprie gambe. Con dignità.