Qualcuno è convinto che la via maestra sia allontanarli dalla famiglia d’origine. Quei nuclei dove si cresce a pane e ‘ndrangheta. Qualcun altro considera questa pratica – peraltro ormai consolidata da alcuni percorsi istituzionali – una barbarie. Altri ancora, studiando il fenomeno ‘ndranghetistico, hanno parlato di “familismo amorale”, mutuando il concetto sociologico introdotto da Edward C. Banfield.
Il tentativo di togliere acqua fresca e corrente al mulino della ‘ndrangheta tramite le nuove leve dei clan, è, fin qui, riuscito a fasi alterne. Le cosche possono contare su un esercito di giovani pronti a rischiare vita e carcere. Guidati da altri giovani, spesso figli e/o discendenti diretti dei vecchi capibastone. Nel frattempo deceduti o costretti al carcere da lunghe pene detentive.
Giovane, ma già narcotrafficante
L’ultimo caso noto è quello emerso nell’ambito della maxi-inchiesta della Dda di Reggio Calabria, “Nuova Narcos Europa”. Un blitz congiunto con le Dda di Milano e Firenze, volto a contrastare l’enorme business della droga gestito dalla potente cosca Molè. Un casato storico che, da sempre, si divide Gioia Tauro con l’altra celebre famiglia dei Piromalli. Proprio i dissidi con i Piromalli avrebbero causato, negli anni, un momento di difficoltà, di declino, da parte dei Molè. Dissidi e frizioni culminate con l’eliminazione, l’1 febbraio del 2008, del boss Rocco Molè. Ma la cosca, secondo gli inquirenti, sarebbe stata tutt’altro che in declino. Proprio le nuove leve avrebbero contribuito a far rialzare la testa al casato di ‘ndrangheta.
Lo dice anche in un’intercettazione il giovane Rocco Molè, nipote omonimo del capo ‘ndrangheta assassinato. Appena 26 anni, ma sarebbe stato lui, insieme all’anziano nonno Antonio Albanese, il leader del sodalizio criminale. Il giovane Molè, intercettato, fa proprio riferimento ai fasti di un tempo. E al fatto che, una volta completata la rinascita, tutti sarebbero dovuti tornare a bussare alla loro porta. E che lui, nonostante la giovane età, si sarebbe ricordato di chi, negli anni, è rimasto fedele. Ma, soprattutto, di chi ha voltato le spalle. Così, quindi, i Molè hanno provato a rialzare la testa. Anche grazie ai rapporti con la potente famiglia Pesce di Rosarno e con i Crea di Rizziconi. Ma anche con la ‘ndrangheta del territorio vibonese.
Il progetto “Liberi di scegliere”
Il giovane Rocco Molè è stato per 3 anni, quando ancora era minorenne, a Torino in una struttura di recupero gestita da Libera nell’ambito del progetto “Liberi di scegliere” promosso dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria per il reinserimento nella società dei figli dei boss mafiosi. Si tratta di un percorso elaborato ormai diversi anni fa dall’allora presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella. Protocollo di intesa tra vari Enti, anche governativi, Libera e la Chiesa, che si propone di aiutare e accogliere donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso e promuovere una rete di protezione e di sostegno per tutelare e assicurare una concreta alternativa di vita ai minori e alle loro madri, provenienti da famiglie mafiose.
Una pratica ormai consolidata, che, in diversi casi, ha dato frutti importanti. Sono più di 100 i minori coinvolti e circa 25 le donne andate via con i propri figli. Alla ricerca di un futuro diverso. Sebbene non siano mancate le polemiche circa la logica – secondo alcuni “militare” – di sottrarre i giovani alle famiglie di origine. Sottovalutando, sempre a detta dei detrattori, l’aspetto pedagogico, culturale e formativo che deve necessariamente avere la lotta alla ‘ndrangheta. Il giovane Molè – Roccuccio per tutti – era rientrato in questo programma proprio alla morte dello zio omonimo Rocco, assassinato nel 2008 nell’ambito di un conflitto interno con gli alleati storici Piromalli. Un recupero fallito, evidentemente.
Malefix
Scardinare i modelli ‘ndranghetistici non è affatto semplice. Soprattutto in famiglie che hanno fatto la storia della ‘ndrangheta. I Molè e i Piromalli sono tra questi. Ma la cosca che più di tutte ha contribuito a modernizzare la criminalità organizzata calabrese è, probabilmente, quella dei De Stefano. Con i suoi rapporti privilegiati con massoneria e servizi segreti. Con il potere, in generale. Ascesa e caduta di “Malefix” sono emblema di quel familismo amorale della ‘ndrangheta. Giorgio Condello Sibio, conosciuto a Reggio Calabria come “Giorgetto” o “Giorgino” ha capito ben presto che il cognome De Stefano, forse, può essere un biglietto da visita, un brand, più interessante. Anche e soprattutto a Milano, dove si era trasferito. Dove faceva la bella vita.
Soggetto misterioso fin quando non verrà arrestato su mandato della Dda di Reggio Calabria. Balzato alle cronache dei giornali scandalistici per la sua relazione con la showgirl Silvia Provvedi, ex del paparazzo pregiudicato Fabrizio Corona ed ex partecipante del Grande Fratello Vip. I giornali di gossip lo definivano “imprenditore di origini calabresi, membro di una famiglia molto importante”. La “famiglia importante” era quella dei De Stefano. Giorgetto Condello Sibio, infatti, è il figlio naturale di don Paolino De Stefano, assassinato nel 1985 agli albori della seconda guerra di ‘ndrangheta. La madre di Giorgetto, Carmelina Condello Sibio, sarebbe stata l’amante di don Paolino, da cui avrebbe avuto tre figli.
È quindi fratellastro dei più noti Carmine, Dimitri, ma, soprattutto, di quel Peppe De Stefano considerato al vertice dell’ala militare della ‘ndrangheta. In riva allo Stretto, Giorgetto/Giorgino aveva iniziato a essere troppo esposto. E così, la decisione di delocalizzare. E Milano, da sempre, per i De Stefano è una seconda casa. Basti ricordare i rapporti con il boss Franco Coco Trovato. Ma anche il boss Paolo Martino, cugino dei De Stefano e loro avamposto nel capoluogo lombardo.
Il peso criminale
Non solo bella vita, però. Stando alle indagini a suo carico, Giorgio Condello Sibio/De Stefano avrebbe avuto un ruolo molto importante nel dirimere le questioni interne al quartiere Archi, considerato una roccaforte della ‘ndrangheta reggina e non solo. Nelle conversazioni captate, il giovane De Stefano parla già da veterano e sottolinea come le spaccature tra i sodali – che iniziavano ad essere note nel sottobosco criminale reggino – avrebbero indebolito la cosca, facendola apparire più vulnerabile.
Se Giorgetto/Giorgino ha ben capito, fin da subito, l’importanza del cognome De Stefano, c’è chi con cognomi importanti ci nasce. Proprio come in una monarchia, il peso criminale, nella ‘ndrangheta, ha anche un valore di discendenza diretta. Per questo Roccuccio Molè poteva gestire flussi di cocaina così enormi. Il 25 marzo 2020 – siamo quindi nel pieno del primo lockdown – in una masseria di Gioia Tauro sono stati rinvenuti e sequestrati oltre 500 kg di cocaina, suddivisi in panetti di 1 kg circa, alcuni dei quali marchiati con il logo “Real Madrid”, giunti nei giorni precedenti al porto di Gioia Tauro, occultati all’interno di un container commerciale. Tutta droga che avrebbe una firma chiara. Quella del giovane Rocco Molè.
C’è chi il cognome se lo sceglie. E chi ci nasce. È il caso anche di Luigi Greco, figlio secondogenito del boss Angelo, soprannominato Lino. Una famiglia egemone a San Mauro Marchesato, nel Crotonese, che da tempo, però ha spostato il suo core business in Lombardia, a Milano. Proprio nel cuore della City Life, tra sfarzo e auto di lusso, gli inquirenti censiscono incontri e cene tra gli uomini di ‘ndrangheta e importanti imprenditori. Evidentemente per parlare di affari. Ma anche di politica.
Nel 2017 viene invece arrestato in Brasile Vincenzo Macrì. Considerato elemento di spicco della cosca Commisso di Siderno, dedito al narcotraffico internazionale. Figlio di Antonio Macrì, classe 1904, leader carismatico, soprannominato per la sua caratura criminale “Boss dei due mondi”, particolarmente influente anche oltreoceano (Canada e Stati Uniti), il celebre don ‘Ntoni venne ucciso in un agguato a Siderno nel 1975, nell’ambito della prima guerra di ‘ndrangheta. Quel delitto sul campo di bocce, che era la sua passione, segnò la presa del potere da parte della nuova ‘ndrangheta dei De Stefano.
‘Ndrangheta e movida
Da sempre legata ai De Stefano e originaria di Archi è la cosca Tegano. Cresciuta tra la prima e la seconda guerra di ‘ndrangheta grazie a boss del calibro di Giovanni Tegano, recentemente scomparso. Dopo il suo arresto, in seguito ad anni di latitanza, qualcuno, tra la folta folla fuori dalla questura di Reggio Calabria, gridava «uomo di pace». Proprio per testimoniare le sue capacità di mediatore. Per mantenere equilibri che, da sempre, sono la forza della ‘ndrangheta. Non la pensano così, evidentemente, i rampolli della cosca Tegano. Giovani, ma già con un curriculum criminale importante. Ma, soprattutto, ben visibile. Molesto. A fronte di una ‘ndrangheta che ha sempre amato rimanere sotto traccia. I “Teganini”. Così è soprannominato il gruppo di giovani del clan, che, negli anni, hanno seminato il panico nei locali della movida di Reggio Calabria.
Sì perché i giovani di ‘ndrangheta amano la movida. Proprio come Giorgio Condello Sibio/De Stefano. Ma se del figlio naturale di don Paolino, fino a poco tempo fa, non esistevano nemmeno foto sui social, i “Teganini” sono diversi. Soggetti come Mico Tegano, figlio del boss ergastolano Pasquale, o Giovanni Tegano, nipote omonimo del cosiddetto “uomo di pace”, fanno parte della ‘ndrangheta 2.0. Quella che si spalleggia sui social. Ma quella, soprattutto, che fa soldi con i nuovi modi di delinquere. Il gioco d’azzardo online, soprattutto. Come testimoniano le inchieste “Gambling” e “Galassia”. Ma, soprattutto, terrorizzano avventori ed esercenti dei locali più “in” di Reggio Calabria. Chiedendo, anzi, pretendendo, di non pagare. Oppure per una parola di troppo. Talvolta per uno sguardo. Molti di loro sono già dietro le sbarre.
Chi va avanti e chi si ferma
Ma è lungo l’elenco di figli che hanno proseguito le orme dei genitori. Da Rocco Morabito, figlio del boss Peppe Morabito, “il tiradritto” di Africo. A Peppe Pelle, figlio di don ‘Ntoni Pelle, che negli anni ha ricoperto anche il ruolo di capo crimine a Polsi. E, ancora, Antonio Piromalli, figlio del boss Pino Piromalli, detto “facciazza”, a sua volte fratello del celebre don Mommo Piromalli.
Uno dei punti di forza della ‘ndrangheta – che la rende quindi anche più immune al fenomeno del pentitismo – è la sua struttura familiare. Ruoli che vengono acquisiti per discendenza. Casi emblematici sono quelli della cosca Mancuso. Una famiglia d’elite della ‘ndrangheta. Sebbene, negli anni, sia stata pesantemente colpita da indagini giudiziarie, non risulta indebolita. Proprio per la capacità di attingere sempre a nuove leve. Domenico Mancuso, 45 anni, figlio del boss ergastolano Peppe, alias “Mbrogghjia”, è stato recentemente condannato a oltre 20 anni di reclusione nel processo “Dinasty”, una delle indagini caposaldo contro i Mancuso.
Ma c’è chi, all’interno di quella famiglia, cerca di spezzare la catena. È il caso di Emanuele Mancuso, figlio del carismatico boss Pantaleone, detto “l’ingegnere”. Si tratta del primo caso di pentimento all’interno della storica cosca di Limbadi, al centro di molti traffici criminali anche a livello internazionale. Emanuele Mancuso, tra l’altro, è il nipote di Rosaria Mancuso, accusata di essere stata la mandante dell’omicidio di Matteo Vinci, con una bomba collocata sotto la sua automobile. Una collaborazione storica, nell’ambito della quale, Emanuele Mancuso sta raccontando fatti e dinamiche criminali della sua famiglia, ma non solo.
E non è l’unico. Anche Francesco Farao, oggi poco più che 40enne, ha deciso di passare dalla parte della giustizia. Figlio del boss ergastolano Giuseppe, racconta degli affari del clan crotonese. Con propaggini anche al Nord.
Perché, da sempre, nella ‘ndrangheta chi collabora è considerato un infame. L’anello debole. Ma l’anello debole è anche quello più forte. Perché spezza la catena.