«In qualità di sacerdote e massimo referente religioso del santuario della Madonna della Montagna in Polsi, grazie all’autorevolezza derivante dai suddetti ruoli, mediava nelle relazioni tra esponenti delle forze dell’ordine, della sicurezza pubblica ed esponenti di rango della ‘ndrangheta. In funzione di garante delle promesse e di agevolatore dello scambio tra le informazioni gradite ai primi e varie forme di agevolazione gradite ai secondi, in maniera che l’azione di contrasto dello Stato si nutrisse di apparenti successi, dietro ai quali nulla mutasse nelle reali dinamiche di potere interne alla ‘ndrangheta ed in quelle correnti tra quest’ultima e le altre strutture di potere, riconosciute e non riconosciute».
Un ruolo di raccordo. Di collante tra mondi diversi quello che avrebbe rivestito don Pino Strangio. È questa una parte del capo d’imputazione per il quale il sacerdote, pochi giorni fa, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del maxiprocesso “Gotha”, celebrato contro ‘ndrangheta, massoneria e politica.
‘Ndrangheta e religione
La condanna di don Pino Strangio, per anni rettore del Santuario di Polsi, è l’ennesima tappa di un pericoloso percorso che ha visto, negli anni, le strade di ‘ndrangheta e religione incrociarsi pericolosamente. «La condanna penale in primo grado di un sacerdote della diocesi suscita dentro di me sentimenti diversi. Pur non conoscendo ancora le motivazioni della sentenza, da una parte sono profondamente addolorato per la gravità delle accuse che hanno portato alla determinazione del Collegio penale e dall’altra ho molta fiducia nell’operato della Magistratura. Mi propongo d’incontrare il sacerdote appena possibile, per un’approfondita valutazione della sua vicenda giudiziale nel contesto pastorale ed ecclesiale». Così, il vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva, ha commentato la condanna di don Pino Strangio.
Da sempre, la ‘Ndrangheta ruba simboli, ruba credenze, ruba riti. Tutto è funzionale a creare una identità culturale. Qualcosa che possa creare proselitismo e senso di appartenenza. Soprattutto presso i più giovani. Ma tutto è funzionale anche a mantenere quel controllo del territorio, senza il quale le cosche non riuscirebbero a condizionare la vita politica, economica e sociale dei luoghi e delle comunità.
Solo per fare un esempio, l’importanza delle feste religiose nei paesi calabresi. Lì, molto spesso, un ruolo fondamentale nell’organizzazione degli eventi, così come nelle processioni, è rivestito dalla ‘ndrangheta. Da Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, alla “Affruntata” di Sant’Onofrio, nel Vibonese. Noti, molto noti, gli esempi degli “inchini” delle immagini della Madonna davanti alle case dei boss ai domiciliari. E altrettanto documentati i sequestri di materiale sacro, dai vangeli alle bibbie, passando per le immaginette sacre, che spesso vengono rinvenute nei bunker dei grandi latitanti.
In tal senso, riveste un ruolo fondamentale in seno alla ‘ndrangheta il culto per la Madonna della Montagna. Proprio lì, a Polsi, dove don Pino Strangio era rettore del Santuario. Don Pino Strangio, sempre secondo il campo d’imputazione per cui è stato condannato in primo grado, avrebbe rafforzato «la capacità dell’organizzazione criminale di controllare il territorio, l’economia e la politica ed amplificando la percezione sociale della sua capacità d’intimidazione, generatrice di assoggettamento e omertà diffusi».
Da diversi collaboratori di giustizia e nell’ottica della magistratura, don Pino Strangio è considerato l’erede di un altro prete assai controverso. Per qualcuno un mafioso, per altri un martire. Prete ad Africo, roccaforte della ‘ndrangheta dell’area jonica. Da sempre la figura di don Giovanni Stilo divide. Il suo nome è legato anche alla figura di Antonino Salomone, uomo di rango di Cosa Nostra. Il prete avrebbe favorito la sua latitanza.
Colluso o martire? Don Giovanni Stilo
Una circostanza raccontata per primo dal collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Salomone proveniva dal Brasile e doveva incontrarsi a Parigi con un suo nipote, Alfredo Bono, da me conosciuto nel 1978-79. Il nipote avrebbe dovuto accompagnarlo a Palermo per discutere su di un impegno che Salomone aveva assunto ma che non aveva mantenuto. Salomone pero non passò da Parigi, ma entrò in Italia attraverso la Germania. E quindi comparve ad Africo, dove rimase per oltre un mese, ospite di don Giovanni Stilo, in una casa adiacente all’istituto Serena Juventus. So che qualche tempo prima, precisamente dopo il 1981, anche Salvatore Riina fu presente in Africo, cosi come lo fu a San Luca. Nel periodo in cui si trovava ad Africo indossava abito da prete».
Proprio grazie all’istituto Serena Juventus e ai suoi rapporti con la politica e, in generale, il potere, don Stilo avrebbe accresciuto il proprio potere. Anche di natura clientelare. Il fratello sarà anche sindaco. Ovviamente nelle file della Democrazia Cristiana.
Di don Stilo parla anche il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, che definisce «notoria» l’appartenenza del prete di Africo alla massoneria: «Don Stilo si riforniva ogni volta che passava dal distributore di carburante da me gestito a Pellaro e l’avevo conosciuto negli anni Settanta quando dovevo raccomandare una ragazza […] che doveva sostenere esami presso la sua scuola di Africo. Per cui andai da don Stilo assieme a “Peppe Tiradritto” e cioè Giuseppe Morabito. Devo però aggiungere che anche l’ex onorevole Piero Battaglia, allora consigliere comunale, l’aveva raccomandata al medesimo don Stilo. L’intero paese di Africo fu costruito grazie ai rapporti di don Stilo con l’onorevole Fanfani».
Secondo Barreca, don Stilo avrebbe avuto importanti relazioni sia all’interno dell’ospedale di Locri, sia soprattutto all’interno dell’Università di Messina. Lì dove riusciranno a laurearsi decine di rampolli di ‘ndrangheta, diventando di fatto classe dirigente. Legami che, comunque, passerebbero sempre dalla comune appartenenza massonica: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dependance di Africo Nuovo, nel senso che vi comandavano don Stilo e i suoi accoliti».
Don Stilo viene anche arrestato e processato con l’accusa di connivenza con la ‘ndrangheta e, in particolare, con le cosche Ruga, Musitano e Aquino. A pesare sul prete erano intercettazioni telefoniche e dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Il prete di Africo era accusato di aver presenziato ad alcuni summit mafiosi, cosi come disse il pentito Franco Brunero. Ma, soprattutto, di aver aiutato nella latitanza il boss di San Giuseppe Jato, Antonio Salomone, cugino di Salvatore Greco, detto “Totò l’ingegnere”, uno dei capibastone di Ciaculli. Il Tribunale di Locri, nel luglio del 1986, condannò Don Stilo a cinque anni di carcere. La Corte d’Appello di Reggio Calabria confermò la condanna nei suoi confronti. Ma la Corte di Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale (il giudice passato alla storia come “ammazzasentenze”), rimise tutto in discussione. Nuovo processo di secondo grado a Catanzaro. Don Stilo, nel giugno del 1989, fu assolto da ogni accusa.
Oggi collaboratore, ma prima medico, uomo in contatto con le cosche della Piana di Gioia Tauro e anche massone. Il dottor Marcello Fondacaro riversa le proprie conoscenze sul mondo della masso-‘ndrangheta ai pm della Dda di Reggio Calabria. Fondacaro parla dei rapporti tra le logge di Reggio Calabria e quelle di Trapani. Due aree, il Reggino e il Trapanese, tra le più povere d’Italia, ma anche le più gravide di massoni: «Don Stilo lasciò la sua eredità a Don Strangio di San Luca. La sua eredità intesa eredità di rapporti, di rapporti politici, di rapporti massonici».
Il bubbone ‘ndrangheta nella Chiesa
Dal passato a oggi, la funzione dei sacerdoti, quindi, ha rivestito sempre un’importanza vitale negli equilibri. Soprattutto nei piccoli centri. E, purtroppo, talvolta parliamo di equilibri di ‘ndrangheta. Don Pino Strangio, infatti, avrebbe avuto anche un ruolo nei rapporti tra Stato e ‘ndrangheta nel periodo successivo alla strage di Duisburg, avvenuta il 15 agosto del 2007.
Le ingerenze delle cosche a Polsi, a Sant’Onofrio o in altri luoghi sparsi su tutto il territorio calabrese sono solo punte più visibili e affilate di un iceberg. Che è molto più grande. Che comprende un controllo capillare, sistematico, da parte delle ‘ndrine sulle celebrazioni sacre. Un controllo messo in atto con la stessa cura e precisione con cui si controllano gli appalti. Con essi si accumulano ricchezze. Con il controllo sociale delle masse, invece, si conquista e si mantiene il potere.
Non è un caso. Non può essere un caso che alcune tra le cariche e le strutture più importanti della ‘ndrangheta abbiano richiami di natura massonica e religiosa. Dal Vangelo alla Santa. Passando per San Michele Arcangelo. Che, curiosamente, è sia patrono della Polizia, sia della ‘ndrangheta. E, ovviamente, il ruolo rivestito dal Santuario della Madonna della Montagna a Polsi, che per anni ha visto insozzata le propria funzione religiosa e spirituale da riunioni e summit di ‘ndrangheta.
È il 21 giugno del 2014 quando Papa Francesco, nella Piana di Sibari a Cassano allo Ionio, lancia la scomunica ad ogni forma di criminalità organizzata. Volutamente il Pontefice ha scelto la Calabria. La regione, forse, dove la Chiesa ha fatto meno contro la ‘ndrangheta. Soprattutto se si pensa ai preti martire, come don Pino Puglisi, in Sicilia. O don Peppe Diana, in Campania.
«I mafiosi non sono in comunione con Dio» disse Papa Francesco. Da quel giorno, nulla o quasi è cambiato. Una parte della Chiesa continua a essere timida sulla lotta alla ‘ndrangheta. E non sono inusuali i collegamenti, talvolta solo relazionali, ma altre volte anche di natura criminale, tra le tonache e il mondo delle ‘ndrine. All’inizio del 2021, due preti del Vibonese sono stati anche rinviati a giudizio per tentata estorsione aggravata dalle modalità mafiose.