La sera del 9 luglio 2021 Maria Bellizzi, partita quasi un secolo prima dalla Calabria, è a casa a Montevideo con sua figlia Silvia. Aspettano con impazienza di mettersi in contatto con l’Italia, è da 22 anni che lo aspettano questo momento. Era il 25 giugno del 1999 infatti, quando Maria fece ritorno a Roma per depositare la denuncia di sparizione di suo figlio alle autorità italiane. Quel giorno, davanti al pubblico ministero Giancarlo Capaldo, Maria non era sola. Insieme a lei c’erano le signore Marta Casal, moglie di Gerardo Gatti, italo-uruguaiano scomparso a Buenos Aires; Luz Ibarburu, madre di Pablo Recagno, italo-uruguaiano anche lui scomparso a Buenos Aires, Cristina Mihura, moglie di Bernardo Arnone, italo uruguaiano scomparso a Buenos Aires e Aurora Meloni, moglie di Daniel Banfi, cittadino italo-uruguaiano assassinato a Buenos Aires. Sono tutti desaparecidos.
Maria Bellizzi nel 1928 è partita dalla Calabria, dal paese di San Basile, una comunità greco-albanese aggrappata alle pendici del Pollino. Quel 25 giugno del 1999 è a Roma per denunciare la scomparsa del suo primogenito, Humberto Bellizzi, cittadino italo-uruguaiano rapito a Buenos Aires. E da quando è sparito nel nulla che Maria non ha pensato ad altro, trasformandosi da un giorno all’altro da una tranquilla casalinga a una madres, una delle instancabili protagoniste dell’organizzazione che più di qualsiasi altra ha saputo rappresentare una spina del fianco delle dittature civico militari che hanno segnato il momento più buio del ’900 in America latina.
Maria per quarant’anni ha girato le questure, i commissariati, i tribunali e le ambasciate di più paesi per chiedere di suo figlio. Quella denuncia a Roma è stato il primo atto del Maxi Processo Condor, oggi Maria ha 96 anni e freme per ricevere la notizia della sentenza definitiva. Si può solo provare a immaginare cosa prova nel momento in cui squilla il telefono.
DOV’È HUMBERTO?
Aprile del 1977, fra i banchi dell’università Piero nota un’assenza insolita. Le lezioni sono iniziate da poche settimane e finora il suo compagno di studi Humberto non ne ha saltata nemmeno una. La sera tardi ci pensa e, prima di rincasare, decide di passare da casa sua per capire il perché di questa assenza inaspettata. Casa di Humberto è a via Bartolomè Mitre, a pochi isolati dal Congresso argentino. Quando Piero gira l’isolato e inizia a guardare il vecchio condominio, sulla porta del palazzo nota subito un tipo guardingo che non ha mai visto.
Si avvicina guardando le finestre in alto e decide lo stesso di salire le poche scale che lo separano dal primo piano. Lì trova quello che non poteva immaginare. Nell’appartamento ci sono delle persone che rovistano affannosamente fra le cose di Humberto. Piero non chiede, immagina siano pericolosi, perciò continua a salire le scale facendo finta di niente. Perde un po’ di tempo finendo il corridoio di un altro piano. Poi torna indietro, riscende e corre ad avvertire gli altri: Humberto non c’è, Humberto è scomparso.
Pochi giorni prima Jorge Goncalves Busconi, orologiaio all’incrocio fra le strade San Josè e Belgrano, sempre nel distretto dove ha sede il Congresso di Buenos Aires, stava per uscire dal lavoro. Passeggiava con la sua Maria, incinta di otto mesi, che ora racconta la scena agli amici, radunati per capire cosa stia succedendo in quel quartiere. Un gruppo di uomini armati le hanno chiesto a muso duro: «Sei anche tu uruguaiana?». Alla risposta negativa l’hanno tirata via con uno strattone: «Allora allontanati». Jorge è stato preso e portato via in un lampo. Il giorno prima del suo arresto Jorge era a casa di Humberto, sono amici da tempo e in quel periodo si vedono con molta frequenza. Ora sono entrambi spariti.
Perché li hanno presi, che tipi sono? Dell’orologiaio Jorge non abbiamo detto solo che aveva 35 anni, Humberto invece nel 1974 ne ha 24. In Uruguay questo figlio di italiani ha completato gli studi primari al Colegio Nuestra Senora de Pompeya, ha studiato medicina e ha vissuto con i suoi genitori e sua sorella minore Silvia in un appartamento di Montevideo, a via Enrique Aguiar, numero 5014. Da giovanissimo ha diretto il giornale di quartiere “El Sol” e ha lavorato nella pubblicità come pittore di lettere e fumettista. In Uruguay ha militato nel ROE (Resistenza Studentesca Lavoratrice) e all’istaurarsi di una feroce dittatura militare ha pensato, come molti giovani connazionali, di trasferirsi in Argentina, in quel momento l’ultimo baluardo apparentemente democratico del Cono Sud dell’America latina. L’unica illusione di futuro.
A Buenos Aires è arrivato nel 1974, ha lavorato nella pubblicità per la società Nestlé e successivamente ha aperto anche la dispensa alimentare con i suoi amici Carlos Ramirez, Ricardo Perez e proprio Jorge Goncalves Busconi. Si tratta di una piccola attività commerciale, un magazzino all’incrocio tra Sarmiento e Montevideo, nella zona del Mercado Rosado. Con Ricardo Perez erano anche soci in un’altra attività, un laboratorio di pittura pubblicitaria proprio davanti all’appartamento di Humberto, sull’insegna c’è scritto “Tabarà”.
Il 19 aprile 1977, Humberto, uruguaiano figlio di italiani ha ottenuto la cittadinanza argentina da un mese. Quella mattina è una come tante, fino a quando arriva una persona al suo appartamento e chiede di parlargli per commissionargli un lavoro di pittura pubblicitaria su una vetrina. Humberto risponde che la cosa gli interessa, ma che prende i lavori a metà con il suo socio Ricardo. Allora gli chiede dove sta il socio, e lui lo porta dall’altro lato della strada, dove si mettono d’accordo per andare tutti insieme all’indomani a vedere questa vetrina. Tutto normale.
Poi però arriva una telefonata che normale non è. Un cliente che ha una gioielleria avvisa Ricardo di non andare in quel posto, perché all’incrocio fra le strade Independencia e Entre Rios c’è gente strana ad aspettarli. È invece troppo tardi per Humberto, che a quel punto già non si trova più. Non si sa se è andato in anticipo all’appuntamento o se lo abbiano preso in quella fatidica strada. L’unica cosa che si sa che è sparito in pieno giorno e in pieno centro, proprio come il suo amico Jorge.
Ma perché a Humberto Bellizzi, uno studente e lavoratore come tanti altri, è toccata una sorte così crudele? Una domanda che perseguita gli amici e i familiari, e che ad oggi ha una sola possibile risposta. Nel 1974, nell’anniversario del golpe uruguayano, Humberto aveva partecipato a una manifestazione in Argentina. La manifestazione non era autorizzata, perciò fu arrestato insieme a 101 connazionali. Fu subito rilasciato, ma inserito in una lista. La colpa di questo giovane è stata quindi aver manifestato da uomo libero contro la dittatura, un affronto che i tiranni del tempo non potevano dimenticare.
EL ATLETICO
Secondo testimonianze più recenti, i due sarebbero stati portati nel Club Atletico, uno dei centri di detenzione clandestina di cui pullulava in quel periodo Buenos Aires. Era una caserma militare, l’avevano chiamata Club Atletico per celare il fatto che in realtà la lettera “A” stava per “Antisovversivo”. Atletico, Banco e Olimpo erano tre centri collegati, tanto che nei processi si parla di questo sistema di repressione come “ABO”. L’Argentina in quel periodo vive così, nella bugia legalizzata. Mentre si prepara ad ospitare i Mondiali del 1978 in un clima di festa nazionale, nelle pance segrete delle caserme tortura, uccide e fa sparire un’intera generazione.
Il Club Atletico si trovava in Avenida Paseo Colón numero 1266, nel quartiere di San Telmo, uno dei più antichi della città. È stato operativo per un anno circa, dal febbraio del 1977 fino a inizio 1978, quando lo hanno smantellato per la costruzione dell’autostrada 25 de Mayo. I suoi orrori sono finiti sotto una montagna di terra che li ha coperti per decenni. Nel seminterrato del Club Atletico si stima siano transitati circa 1800 prigionieri, pochissimi sono sopravvissuti.
«Il tuo nome d’ora in poi sarà K-35, poiché per gli estranei sei scomparso», ha raccontato di essersi sentito dire nel Club Atletico il sopravvissuto Miguel Ángel D’Agostino. Trascinato per le scale fino al seminterrato, è stato privato di ogni effetto personale. Poi è stato spersonalizzato, è diventato una lettera e un nome, come accadeva nei centri nazisti. L’accostamento non è casuale, all’interno del Club Atletico si sentiva ripetutamente una cassetta con i discorsi di Hitler a tutto volume, accompagnati dalle urla e dalle risate dei repressori.
La sopravvissuta Ana María Careaga, aveva sedici anni quando finì all’Atletico e sua madre è ancora desaparecida. Ha raccontato questi dettagli al Conadep, la commissione governativa che ha fatto luce sui crimini di Stato in Argentina: «A quel tempo l’unica cosa che poteva salvarci dalla sofferenza era la morte. Poiché nessuno sapeva dove fossimo, dissero di avere tutto il tempo del mondo. L’unico modo per fermare la sofferenza era morire, perché non ci avrebbero lasciato liberi e non ci avrebbero lasciato morire per poter continuare a torturarci».
Un’altra sopravvissuta a quest’orrore ha dichiarato di aver visto e riconosciuto all’interno del Club Atletico Jorge Goncalves Busconi. Da qui si ritiene che anche a Humberto Bellizzi sia toccato lo stesso destino. Ricostruzioni storiche e giudiziarie ritengono inoltre molto probabile che i rapitori abbiano consegnato i due amici a ufficiali dell’intelligence dell’esercito uruguaiano che interrogavano e torturavano in quel centro in Argentina. Fra i più famosi ci sono i membri della Compañía de Contrainformaciones, il maggiore Carlos Calcagno e il capitano Eduardo Ferro.
L’ex militare uruguaiano Jorge Nestor Troccoli ha anche lui origini italiane e si è distinto nelle operazioni congiunte con l’Argentina per dare la caccia a quelli che venivano considerati sovversivi. È stato l’unico imputato del Processo Condor giudicato in aula, visto che per sfuggire alla giustizia del suo paese è venuto a rifugiarsi in Campania, prima a Marina di Camerota e poi a Battipaglia, dove il dieci luglio 2021 è stato arrestato. Dovrà scontare la pena definitiva all’ergastolo. Questa è la notizia che Maria aspettava da anni.
UNA STORIA DI CALABRIA
Il nome completo del figlio di Maria è Andres Humberto Bellizzi Bellizzi. Non c’è errore, il cognome è ripetuto due volte perché è lo stesso della madre e del padre, entrambi provenienti da San Basile, un paese del Pollino in provincia di Cosenza dove è evidentemente molto diffuso. Quando per le prime volte andò a chiedere di suo figlio in commissariato gli capitò un funzionario che le disse: «Ah, il ragazzo con un doppio cognome, qui non c’è». Era il segno che lo sapeva eccome dov’era il figlio.
Maria, come molti corregionali dell’epoca, arriva a Montevideo da bambina per la legge di ricongiungimento familiare. Il papà, partito tempo prima per sfuggire alla fame del Sud Italia fra le due guerre mondiali, aveva finalmente trovato occupazione stabile e poteva riabbracciare la sua famiglia. È il 1928, il viaggio, lunghissimo e pericoloso, Maria lo compie insieme alla madre: è un nuovo inizio, che presto si presenta come ancora più difficile. Il padre di Maria muore giovanissimo, e a lei tocca prendersi cura dei fratelli per aiutare la madre a sostenere la famiglia. Studia, lavora e a vent’anni sposa Andrés Bellizzi, anche lui oriundo di San Basile. Hanno due figli, Humberto e Silvia.
Maria si occupa della famiglia e cresce i figli nella pace, fino a quando il colpo di Stato militare impone la partenza al figlio. Lui comunque torna spesso a casa e non le dà molto da pensare: studia, lavora tanto e ottiene ben presto la cittadinanza permanente in Argentina. Poi però il golpe militare arriva anche là. E una domenica, il 25 aprile del 1977, la notizia che Humberto è sparito insieme a Jorge raggiunge quella casa di italiani a Montevideo. La vita di quella famiglia viene sconvolta per sempre.
Maria da quel giorno si trasforma in un’icona di lotta in Uruguay, diventa referente nazionale de la Asociación de Madres y Familiares de Detenidos-Desaparecidos. Assurge a simbolo per migliaia di donne, manifestando in prima fila per i diritti umani ogni volta che ve n’è occasione, nonostante l’avanzare dell’età.
Anni di lotta e di dignità, poi nel 1986 Maria rivela a un settimanale uruguaiano di aver finalmente scoperto perché sparì il figlio. Dieci giorni dopo aver presentato la denuncia di sparizione di Humberto al Ministero degli Affari Esteri uruguaiano, rivelò Maria, l’allora cancelliere Rovira convocò la famiglia Bellizzi. Ed è in quelle stanze che scoprirono la triste verità, anche se in modo ufficioso.
Perché era stato preso suo figlio? Perché in quel momento, furono queste le parole di un funzionario, «era necessario arrestare tre uruguaiani in Argentina». Ma perché proprio lui? Perché nel 1974, quando ancora l’Argentina era democratica, c’era stata una manifestazione per protestare contro il golpe in Uruguay e 101 manifestanti uruguaiani finirono in una lista, che anni dopo si rivelerà una lista di morte. La colpa di Humberto, dunque, fu quella di aver osato manifestare liberamente contro la violenza. Un affronto i tiranni che non potevano dimenticare.
Maria non si è mai fermata, ha aderito convintamente all’idea di far partire il processo in Italia. Il 12 maggio del 2017 è riuscita a incontrare Sergio Mattarella richiamandone l’attenzione sul tema decenni dopo l’impegno di Pertini. Al tempo dell’incontro fra Maria e il Capo dello Stato del suo paese di origine, la sentenza di primo grado del Processo Condor di Roma pareva continuare la linea dell’impunità storica.
Ma Maria che non è tipo da arrendersi, lo stesso ha manifestato i suoi buoni auspici al Presidente della Repubblica consegnandogli una lettera in cui gli ha chiesto di occuparsi del caso di Nestor Troccoli e dei torturatori che hanno trovato riparo in Italia, invitando Mattarella a leggere i cognomi della lista dei desaparecidos, per potersi accorgere di quanto questa storia abbia a che fare con il nostro paese.
«Gli dissi anche che fino all’ultimo respiro della mia vita avrei continuato a lottare per conoscere la verità e fare giustizia per mio figlio e per tutti i detenuti scomparsi», ricorda Maria Bellizzi a I Calabresi, e oggi che finalmente c’è una sentenza definitiva è arrivato il momento di fare il punto sul suo impegno.
«È stato davvero un sollievo ricevere la notizia della sentenza. Nonostante la distanza nel tempo e nei chilometri», ha aggiunto, «la giustizia è stata conquistata e credo che ora si apra al mondo un precedente internazionale. È importante per le nuove generazioni in tutti i posti del mondo dove tutto questo ancora accade».
Quando è stata chiamata a deporre in aula a Roma, nel 2015, gli imputati della scomparsa del figlio erano nel frattempo deceduti. Perciò la sua deposizione ha avuto un valore collettivo, ricostruendo la vicenda della sparizione di Humberto ha potuto parlare del Plan Condor come di un coordinamento repressivo internazionale fra gli apparati di due paesi sotto dittatura militare.
«Mi sono trovata davanti una corte lontana, insensibile, disinteressata ai gravi fatti denunciati», ricorda. D’altra parte, però, è grata a tutte le organizzazioni che si sono spese per la causa, dai sindacati agli uffici consolari. «Lasciatemi evidenziare in modo molto positivo l’impegno e la sensibilità di tanti. Del senatore Felipe Michelini, di Jorge Ithurburu e della “24marzo”, del pm Tiziana Cugini e degli avvocati, in particolare il nostro avvocato Arturo Salerni, un eccellente professionista e una persona cordiale, anche lui calabrese. Non posso fare a meno di ricordare e ringraziare giornalisti, storici e testimoni come Roger Rodriguez, Martín Almada, oltre alla ricercatrice Francesca Lessa. È importante che la stampa continui a diffondere i contenuti di questa sentenza, che si affermi grazie alla pena perpetua che la sparizione forzata è un crimine di lesa umanità permanente. È un importante punto di arrivo».
E ora? «Non è finita. Devo infatti anche sottolineare che nonostante ci sia una condanna, manca la verità. Gli archivi esistono, li conosciamo, ma tutto è ancora nascosto in un patto di omertà che lo conduce alla tomba. Ci devono dire che fine hanno fatto i corpi dei nostri cari, perché esistono ancora, sono presenti, sono memoria. Finché non avremo la risposta continueremo a chiedere con tutta la voce che abbiamo in corpo: ¿Dónde estan?».
RIVOLUZIONARI DI CALABRIA
La Regione Calabria si è costituita parte civile nel caso di Humberto Bellizzi. In questa enorme ferita aperta del Novecento, Maria non è l’unica madre coraggio calabrese, ce ne sono tante. Una è Angela Maria Aieta, finita a bordo dei voli della morte per aver sfidato i militari argentini che avevano arrestato suo figlio, Dante Gullo. Alla sua memoria la cittadina tirrenica di Fuscaldo ha dedicato una scuola. Il caso di Angela Maria è uno dei pochi in cui ci si ricorda di ricordare questi emigrati che hanno combattuto per un’idea di pace in continenti lontani. Un altro eroe calabrese di questa vicenda è stato Filippo Di Benedetto, il sindacalista già sindaco del Pci a Saracena che in Argentina ha contribuito a salvare decine di vite. Per la ricostruzione di queste storie in pubblicistica, c’è da ringraziare l’impegno della giornalista calabrese Giulia Veltri.
Restano però decine e decine gli eroi calabresi di cui non si ricorda nessuno. Come Libero Giancarlo Castiglia da San Lucido, comandante del distaccamento guerrigliero che ha combattuto la dittatura in Brasile. Vite perse nel nulla, come quelle di Salvatore Amico, desaparecido di Corigliano Calabro, Francesco Carlisano di Pizzoni, Lucio Leone di Cosenza. E di tanti, tanti altri, solo a San Basile ce ne sono altri due. Erano fratelli, si chiamavano Hugo e Francisco Scutari Bellizzi. La loro storia è stata raccontata dalla storica calabrese Rossella Tallerico.
Hugo fu sequestrato il 5 agosto del 1977 e rinchiuso anche lui nel Club Atletico. Lavorava in una banca come delegato sindacale, e combatteva in favore dei diritti dei lavoratori. Anche la sua compagna, Delia fu sequestrata e portata nel Club Atletico, ma dopo 92 giorni fu liberata. Hugo, invece, divenne un desaparecido. Nel loro ultimo incontro, Delia promise al suo amato che avrebbe continuato a combattere in favore della libertà e democrazia, battaglia che dopo 37 anni Delia continua a portare avanti.
Francisco, invece, fu sequestrato il 18 ottobre del 1978, mentre aspettava un suo compagno di militanza del gruppo politico al quale apparteneva, in un angolo di Buenos Aires. Francisco, giunto all’appuntamento, trovò un operativo delle forze repressive che tentarono di bloccarlo. Lui riuscì a scappare, riparandosi in un palazzo, ma lo catturarono. Una sopravvissuta, detenuta nel Centro di Detenzione El Olimpo, reso celebre dal film capolavoro di Marco Bechis, raccontò al fratello Horacio che Francisco fu portato lì, ma non gli seppe dire se vi fosse arrivato vivo o morto.
Per ricordare il coraggio di questi emigrati calabresi a San Basile oggi c’è una piazzetta solitaria, ogni tanto qualche emigrato va a mettere un fiore sotto la targa che dice: “Largo dei desaparecidos”.