Legnochimica a Rende: lo Stato dimentica, i tumori no

Mai bonificati i terreni intorno all'ex stabilimento. E mentre si attende l'esito del processo per disastro ambientale nella zona continuano a registrarsi decessi per cancro tra i residenti

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Della Legnochimica di Rende non si parla da tempo, se non per gli incendi che colpiscono la zona con sinistra puntualità durante il periodo estivo. Tutto ciò che sembra restare della vicenda complessa e tortuosa dell’ex fabbrica di pannelli in ledorex che fu il simbolo dello sviluppo industriale d’Oltrecampagnano è un processo per disastro ambientale.
Si trascina stancamente davanti al Tribunale di Cosenza e quasi non fa più notizia. Analogamente, risultano ferme tutte le ipotesi di bonifica delle vasche di decantazione della ex fabbrica, cioè i laghetti artificiali che vanno periodicamente in autocombustione e tormentano gli abitanti della zona con i loro odori metifici.

Un disastro ambientale su scala

Rende non è Taranto: non ne ha il mare bellissimo e le cozze saporite. Ma se si opera un paragone su scala, è facile capire che Legnochimica ha pesato nella vita e nell’economia di Rende come le acciaierie nella città pugliese.
Nel bene e nel male. Anzi, visto che siamo in Calabria, il male prevale: la fabbrica che occupava centinaia di persone non c’è più. Su parte dei suoi terreni, nel frattempo liquidati in tutta fretta, sono sorte altre attività economiche, anche importanti, ma dalla capacità occupazionale decisamente minore.

Al posto della vecchia Spa, riconducibile alla famiglia Battaglia di Mondovì, c’è una srl, che ha la proprietà dei tre laghi artificiali residui, dei terreni circostanti e di ciò che resta delle ultime strutture aziendali, aggredite anch’esse a più riprese dalle fiamme.
Il mistero si annida in questi trenta ettari di terreno, attorno ai quali si snoda via Settimo, una zona abitata da alcune famiglie che sono, allo stesso tempo, memoria storica e vittime della storia di uno dei più ambiziosi tentativi di industrializzazione della Calabria. Prima hanno visto la fabbrica sorgere e svilupparsi, poi hanno pagato un tributo di lutti e lacrime a questo sogno finito quasi in niente.

La chiusura di Legnochimica

Legnochimica chiuse i battenti a inizio millennio e, dal 2006, cominciò un processo tortuoso di liquidazione volontaria, fermato due anni dopo da Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente della giunta di Rende guidata da Umberto Bernaudo, che nutriva seri dubbi sull’opportunità di liquidare i terreni e di coprire i laghi artificiali senza una doverosa bonifica. Purtroppo, i fatti gli hanno dato ragione: ad agosto 2008 si verificò la prima “autocombustione” delle vasche. Era l’avvio di una brutta vicenda destinata a peggiorare.

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Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente del Comune di Rende quando il sindaco era Umberto Bernaudo

Infatti, a partire dal 2009, varie persone iniziarono a morire. Se ne contano dieci in meno di due anni, tutte per tumori alle parti molli, in particolare al pancreas (circa sei). Un indizio, a detta degli esperti, di almeno due cose: la presenza di inquinamento industriale e di un’epidemia tumorale. Purtroppo, gli indizi non sono prove.
Ma in Calabria accade di peggio: la mancanza di un registro dei tumori li abbassa a livello di suggestioni, perché l’assenza di un database impedisce di elaborare i rilievi statistici necessari per puntare il dito verso qualcosa o qualcuno. Ed ecco che questa tragedia ha un peso secondario nell’attuale processo per disastro ambientale.

La guerra delle perizie

Il peso relativo dei morti non è l’unico paradosso di questa vicenda. Attorno all’ex Legnochimica di Rende si è scatenata una vera e propria guerra dei periti, che sostengono tesi diverse, quasi diametralmente opposte.
La prima tesi, elaborata dall’Arpacal, minimizza la portata dell’inquinamento. Le sostanze inquinanti, a detta dei funzionari dell’Agenzia regionale, ci sarebbero, ma quasi nei livelli consentiti dalla legge. Il sottinteso è evidente: con una pulizia minima, è possibile interrare i laghi residui e procedere alla liquidazione.
La seconda tesi è decisamente più pesante e autorevole. L’autore è l’ex rettore dell’Unical, Gino Mirocle Crisci, in qualità di consulente per la prima inchiesta giudiziaria sulla ex Legnochimica.
Questa inchiesta partì in seguito alle autocombustioni del 2008 ed ebbe come indagato Palmiro Pellicori, all’epoca liquidatore dello stabilimento.

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L’ex rettore dell’Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci

Crisci, per soddisfare le richieste della Procura, portò avanti una serie di carotaggi e di prelievi fino a trenta metri di profondità. I risultati della sua ricerca restano inquietanti: nel sottosuolo dell’ex stabilimento c’è una concentrazione abnorme di acido cloridrico, zinco e metalli pesanti. Secondo le stime dell’ex rettore sarebbero in quantità superiore alle soglie legali di circa cento volte.
La relazione di Crisci finì come il procedimento per cui l’aveva elaborata: archiviata, perché nel frattempo la morte di Pellicori, unico indagato, aveva fermato il procedimento.
Ed ecco il paradosso: fino al 2016, l’unica perizia ad avere un valore legale era quella soft dell’Arpacal, mentre quella di Crisci manteneva un suo valore scientifico ma restava di fatto inutilizzabile.
Intanto, le autocombustioni sono proseguite e le persone hanno continuato a morire.

La nuova inchiesta

La seconda inchiesta è partita nel 2016, anche sulla spinta di inchieste giornalistiche. Stavolta, sono finiti nel mirino Pasquale Bilotta, il liquidatore che aveva preso il posto di Pellicori, e alcuni vertici dell’amministrazione di Rende: il sindaco Marcello Manna, Francesco D’Ippolito, assessore all’Ambiente della giunta Manna dal 2014 al 2019, e Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune.
Per questi tre il procedimento è terminato nel 2019, con un non luogo a procedere, pronunciato dal Gup di Cosenza e confermato dalla Corte d’Appello di Catanzaro.

Alla sbarra è rimasto il solo Bilotta, sul quale gravano le accuse di disastro ambientale e omessa bonifica. Il processo, iniziato dalla procuratrice aggiunta Marisa Manzini e gestito in aula dal pm Antonio Bruno Tridico, prosegue a rilento.
Ma tra le polemiche, sempre più in sordina, e i brogliacci giudiziari è quasi sparito il problema reale: la bonifica.

La bonifica della discordia

Il problema è più che sentito dall’amministrazione attuale di Rende. «Il Comune è intervenuto nei limiti delle sue disponibilità», spiega il sindaco Marcello Manna. Politichese? Proprio no: «Com’è noto, siamo in predissesto», argomenta ancora il sindaco, «e abbiamo un problema giuridico non secondario: l’esproprio».
Secondo l’attuale normativa in materia di disastro ambientale vige il principio per cui “chi inquina paga”, quindi toccherebbe alla srl di Mondovì, attualmente sotto curatela fallimentare, togliere i quattrini. L’alternativa, fa capire il sindaco, sarebbe procedere all’esproprio previo inserimento dei terreni della Legnochimica nelle apposite liste del Ministero dell’Ambiente. Ma dalla Regione tutto tace. «Abbiamo fatto molte istanze a Catanzaro, tutte finite in rimpalli burocratici», argomenta ancora Manna.

Ma la burocrazia è solo uno dei problemi. Un altro, gravissimo, è dovuto alla mancanza di un piano di caratterizzazione. Sul punto, è intervenuto con chiarezza Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del municipio: «Noi abbiamo finanziato una borsa di studio dell’Unical per ottenere una nuova perizia», il cui scopo non è «la caccia al colpevole ma dare indicazioni efficaci per una bonifica». Il risultato è lo studio del professor Salvatore Straface, che riprende il leitmotiv della vecchia ricerca dell’Arpacal: i laghi non sarebbero inquinati in maniera pericolosa. Punto e a capo?

Ancora lutti a Rende

Se ci si attiene invece ai risultati della perizia di Crisci, bonificare costerebbe circa dieci milioni di euro. Una somma di cui non dispone il Comune e che è difficile da captare da altri fondi, regionali e nazionali.
E, come già anticipato, i lutti continuano: dal 2016 a oggi se ne contano altri dodici, con la stessa tipologia dei precedenti nove. Quasi tutte le persone sono morte di tumori alle parti molli, tutti i decessi si sono verificati a via Settimo e dintorni, quindi a distanza significativamente breve dall’ex Legnochimica di Rende, tutti sono avvenuti in un lasso breve, poco più di tre anni.

Ciò che pesa di più su questa vicenda è il nuovo silenzio surreale. I suoi spazi mediatici sono ridottissimi e le poche voci del territorio quasi spente. La XAssociazione Crocevia, per anni in prima fila nella battaglia sull’ex stabilimento, ha perso la propria sede e ha ridotto le proprie attività. Gli altri comitati si limitano a comunicati stampa duri ma poco ascoltati.
A Rende, come a Taranto, per decenni si è barattato l’ambiente (e quindi la salute) col lavoro. Ma al posto delle ciminiere è rimasto un fantasma. Inquietante, pericoloso e forse letale, come in un romanzo horror che difficilmente potrà avere un lieto fine.

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