Genova per noi | Black bloc e polizia, diario dall’inferno della zona rossa

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Black bloc e polizia, il G8 di Genova è stato l’inferno per la zona rossa. Pensavamo che un altro mondo fosse possibile. Adesso abbiamo raggiunto il porto insicuro di una chiusura individualista, ripiegata e arresa. Ho passato anni a fuggire dall’ombra del ricordo di quella che ero prima di quei giorni.

Con i piqueteros, leggendo Impero di Toni Negri

Ero da poco rientrata da una lunga esperienza di vita e lavoro in Argentina, dove le avvisaglie del movimentismo anti sistema erano emerse grazie ad “Impero”, il saggio di Toni Negri e Michel Hardt. Io avevo visto dal vivo il movimento piqueteros, quindi guardavo con un pizzico di sarcasmo e di curiosità ai disobbedienti e al movimento italiano. Non condividevo molte analisi, tuttavia ero parte di quella generazione in un giorno che mai dimenticheremo. Un giorno in cui siamo stati schiacciati tra black bloc e polizia.

L’Italia mi aveva imborghesito

All’epoca vivevo a Bologna, dove lavoravo per una multinazionale dei servizi bancari. Che paradosso. Il mio rapporto di coppia era in crisi, il mio compagno si era trasferito a vivere in Calabria. «L’Italia mi aveva imborghesito», sentenziava davanti alle bollette da pagare. Il fine settimana precedente al G8 avevo pranzato dai miei. Erano preoccupati dalle pieghe che la protesta stava assumendo anche sui media, avevano cercato di dissuadermi dal partecipare alla manifestazione programmata per il sabato successivo.

Quel Casarini non mi piace

«A me quel Casarini am pies gnanc un poc» (a me quel Casarini non piace manco un po’), diceva mio padre, vecchio comunista avvezzo alle lotte e alle manifestazioni di massa. Mia mamma, l’aveva buttata sul ricatto emotivo: «Mi farai morire di crepacuore». Per non farli preoccupare, li rassicurai, baciandoli, dicendo che non sarei andata a Genova per le proteste contro il G8. Dissi loro che sarei andata in Calabria a trovare Facundo, il mio fidanzato argentino.

Decidiamo di andare a Genova

Decidemmo di andare a Genova con i miei colleghi. E poi il Movimento, soprattutto grazie alla mediazione di Agnoletto e alle componenti cattoliche, come Mani Tese, non avrebbe abboccato alle provocazioni. Io, Nicola e Bruno così ci trovammo all’alba di un venerdì di fine luglio caldo e assolato, alla stazione ferroviaria di Bologna, con un piccolo zaino con gli effetti per una gita fuori porta.

Un viaggio lungo e lento

Partimmo con l’entusiasmo dei giusti, ci sciroppammo un viaggio lungo e lento. A Bolzaneto incontrammo altri manifestanti, disorientati come noi. Io avevo fretta di raggiungere Genova perché volevo assolutamente partecipare nel primo pomeriggio ad una assemblea organizzata dal movimento “Drop the debt”. Qualcuno ci disse che c’erano dei bus di linea per Genova Marassi, il quartiere dello stadio e delle carceri. Andammo baldanzosi a imbarcarci verso l’ultima tappa del nostro viaggio, prima della tragedia.

Il clima era cambiato

Il clima a Genova era cambiato. Una cappa di umidità grigia soffocava la città, cominciammo a vedere fumi neri salire in lontananza da più parti. Numerosi elicotteri volavano nel cielo e il flop flop delle eliche – rumore che assocerò da lì in avanti alla paura, alla violenza e alla sopraffazione – sovrastava di poco quello delle ambulanze.

Il nostro primo incontro con i black bloc

A Marassi capimmo di essere finiti in un campo di battaglia. Una ventina di ragazzi, tutti vestiti di nero, casco integrale, mazze di ferro in mano. Erano capeggiati da un porta bandiera che rollava il tempo della marcia, avanzavano spaccando macchine e vetrine. Fu il nostro primo incontro con il black bloc, la falange avanzava indisturbata con la bandiera nera al vento. Rimanemmo bloccati più dallo stupore che dalla paura per una ventina di secondi, poi Bruno ci gridò di scappare. Dallo schieramento di polizia cominciavano a sparare lacrimogeni.

Verso la zona rossa

Alcuni manifestanti stavano saccheggiando un supermercato. La polizia era all’angolo opposto, noi ricominciammo a scappare. A quel punto la paura si era già impadronita di me, il disorientamento di fronte alla sproporzione di forze impiegate e ai black bloc, che agivano indisturbati, mi stava facendo salire il panico. Man mano che ci avvicinavamo alla zona rossa, incrociavamo ragazzi come noi terrorizzati, feriti, che scappavano e ci dicevano di allontanarci da lì ma non sapevamo dove andare.

Hanno ucciso Carlo Giuliani

A un certo punto sentimmo distintamente degli spari. Mentre scappavo, correvo, senza sapere bene cosa stesse succedendo, in un pulsare frenetico della città, mi vibrò il cellulare in tasca. Impaurita e stupita, lo guardai. Era un Alcatel blu, sullo schermo campeggiava la scritta “mamma”. Risposi simulando un affanno da scalata in montagna, i miei mi sapevano sul Pollino, in Calabria. Senza lasciarmi parlare mi disse: «Ninì, hai visto che hai fatto bene a dar retta ai tuoi genitori e a non andare a Genova! Hanno appena ammazzato un manifestante, un ragazzo come te».
Era Carlo Giuliani, a piazza Alimonda.

Alessia Alboresi

consigliere comunale Corigliano-Rossano

 

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