C’è stata una stagione, ormai lontana e inesorabilmente perduta, in cui la Calabria sembrava avere avuto lo sguardo proiettato verso il futuro. Era la prima metà degli anni Ottanta e qui nasceva un’idea che sarebbe stata potentemente pionieristica nel panorama nazionale, quella di dare vita ad una università a distanza. Si chiamava Cud. Una sfida straordinaria per una regione con lo stigma di una terra perennemente in ritardo sulla modernità, ancorata all’immagine di una arretratezza endemica.
La prima università a distanza d’Italia
Mentre il modello di sviluppo classico fondato sulla fabbrica andava in frantumi ovunque senza essere mai stato davvero applicato nel meridione, con straordinaria lungimiranza in Calabria c’era chi pensava di fare un salto in un futuro che era stato esplorato in alcuni paesi, come l’Inghilterra e l’Australia, ma era sconosciuto in Italia. La prima università a distanza del Paese nasceva sulle colline di Arcavacata.
C’erano pure la Sapienza, Olivetti, Ibm e Telecom
Tutto ha origine dal Dpr 382 del 1980, che autorizzava “le università italiane ad unirsi in consorzi ed a sperimentare forme alternative a quelle tradizionali per erogare i propri corsi.” E nell’84 arrivò il Cud, consorzio università a distanza. Ad aderire all’idea, e dunque al consorzio, sono Università della Calabria, Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, Politecnico di Milano, Università di Bari, quella di Padova, di Siena e di Trento. Ma anche realtà private come il Consorzio per la ricerca e l’applicazione dell’informatica (Crai) e poi Olivetti, Confindustria, Ibm, Telecom Italia (ex Sip), Rai, Telespazio.
Con questi soci il Cud doveva essere una corazzata imbattibile, invece affondò come il Titanic. Le risorse economiche, ingenti, per far partire la corazzata vennero dall’Intervento straordinario per il Mezzogiorno. Alcuni docenti Unical, come Sergio De Julio (che divenne successivamente deputato dell’allora Pci), Ivar Massabò e Franco Lata (tutti provenienti dall’esperienza Crai) presentarono il progetto.
Il guru australiano
Era una idea dell’altro mondo. E, infatti, a guidare i primi passi di quell’avventura chiamarono uno che stava dall’altra parte del mondo: si chiamava Desmond Keegan ed era australiano. Era il massimo pioniere dell’educazione a distanza, impegnato nello studio dell’uso delle tecnologie applicate all’insegnamento e sulle strategie necessarie per aumentare l’equità di accesso. L’australiano venne in Calabria, ma tornò presto nella terra dei canguri, forse perché aveva capito che quell’idea bellissima qui aveva una cattiva sorte.
Cud, dieci anni finiti male
Il Cud resistette poco più di dieci anni ma gli ultimi furono parecchio travagliati, tra mobilità e cassa integrazione del personale. Una fine annunciata causata dalla ferocia predatoria della classe politica, ma non solo. Eppure la vocazione all’educazione a distanza era nei geni dell’Unical, che era posta fisicamente sulle colline di Rende, ma aveva l’ambizione di essere università regionale e di raggiungere quindi tutti gli studenti calabresi, anche quelli che non avrebbero trovato posto nel campus.
Timidi inizi di multimedialità
Una idea di decentramento educativo in un tempo in cui ancora il web non esisteva, si basava sulla costruzione di programmi didattici veicolati su videocassette. «C’erano centri di studio, luoghi posti in aree urbane strategiche nella regione, dove gli studenti avrebbero potuto accedere al materiale e studiare le lezioni confezionate nella sede del Cud», racconta Massimo Celani, uno dei primissimi protagonisti di quella storia. Proveniva da una esperienza di programmista Rai e dunque con altri padroneggiava le tecniche del linguaggio video, indispensabili per costruire le lezioni multimediali. Celani, assieme ai primi professionisti formati in quella fase iniziale, costituiva la schiera di “redattori”, o “metodologi dell’insegnamento”. Così venivano chiamate le prime professionalità impiegate nel Cud. «Non si trattava di video lezioni frontali – prosegue Celani – ma di programmi strutturati, con un senso narrativo, al cui interno già emergeva una qualche forma di multimedialità».
La Calabria che voleva modernizzarsi
L’idea ambiziosa è quella di far diventare la formazione a distanza una forma concreta di alternativa all’università tradizionale. Il Cud cresce dentro un contesto in cui i fermenti intellettuali e imprenditoriali sono molto vivaci. È una delle aziende più innovative, assieme al Crai e a Intersiel. La Calabria con queste aziende partecipa come protagonista alla partita della modernità, immaginando un diverso modello di sviluppo che non è basato sull’industria o sull’agricoltura, ma sui saperi e sulla diffusione delle tecnologie. Nasceva quella che poi avremmo chiamato “lavoro cognitivo”, ma allora non lo sapevamo. I settori di intervento didattico del Cud furono all’inizio i corsi di Informatica e di Lingue. Si estesero poi alla Formazione professionale e alla formazione dei docenti delle scuole superiori di tutta Italia all’interno nel nascente Piano nazionale informatico.
Gli appetiti della politica
Il punto debole di quella avventura si rivelò presto la sua natura societaria. «L’essere un consorzio sembrava diluire le responsabilità, sbiadire la guida», ricorda Marina Simonetti, che nel Cud fu prima borsista, e poi progettista di formazione. Una fragilità che rendeva il Cud facile preda di conquista degli appetiti politici, che praticarono indiscriminatamente l’arte della clientela. In breve tempo, da poche decine di professionisti accuratamente selezionati, il personale si estese a più di cento impiegati, molti dei quali autisti. Inoltre un management molto esteso e assai costoso fece la sua parte nell’indebolire la vitalità del Cud.
L’immancabile sede romana per il Cud
Come nelle migliori avventure calabresi, fu subito acquistata una costosa e bellissima sede romana di rappresentanza, in Corso Vittorio, mentre intanto sorgevano in Italia altre esperienze di università a distanza, come per esempio Nettuno, che avevano meno pretese sul piano metodologico, ma con maggiore pragmatismo conquistavano quote di mercato. Poco per volta i vari soci si sfilarono e nel maggio del ’98 si presentò il curatore fallimentare per chiudere la baracca. Per quanti vi lavoravano cominciava la diaspora, tra università e aziende private.
Finisce tutto con il Piano telematico
Con la chiusura del Cud non moriva solo una opportunità, ma si consumava lo spreco di un sapere collettivo. La fine del Cud però è anche altro. È la fine di una stagione in cui complessivamente la Calabria aveva conosciuto stimoli plurali. «C’era una società vivace, capace di pensare più in là, di puntare ad un risveglio tecno scientifico», dice Emilio Viafora, sindacalista della Cgil e allora segretario del sindacato. Per lui la presenza di quella società civile, sensibile ed accogliente verso gli stimoli che venivano dall’Unical, fu l’alchimia necessaria per far nascere l’ambizione di aprire nuove frontiere.
A condannare il Cud e tutta quella stagione furono molte cose. Viafora ricorda una scarsa attenzione verso nuovi modi di vedere gli interventi europei, facendo prevalere una logica «conservativa e assistenziale», ma anche l’inadeguatezza della classe politica del tempo. La fine giunse quasi di colpo, con l’avvio del Piano telematico e le sue immense risorse. Era stato annunciato come il più grande investimento per la modernizzazione della Calabria, sul quale si avventarono i partiti del tempo.
Oggi si parla molto della detestata Dad, eppure nella prima metà degli anni Ottanta la Calabria aveva visto più lontano di tutti, aveva capito che le tecnologie possono costruire e diffondere saperi sofisticati. Il Cud è stato, per questa regione, un breve ed emozionante viaggio in un futuro che abbiamo fatto morire.