Iniziamo con una cifra poco rassicurante: sono poco più di 10mila le imprese calabresi con seri problemi di credito.
Tradotta in percentuali, questa cifra sembra piccola perché equivale al 5,6% delle attività in crisi in Italia. In realtà è un dato allarmante, se lo si paragona al resto del Sud, dove la percentuale di imprese con crediti in sofferenza è il 4,8%, e al sistema Paese, dove arriva al 4,5%.
In questo caso, il Covid non c’entra, perché questi dati sono fermi alla fine del 2019.
Ma sono gli unici disponibili provenienti da fonte autorevole, cioè il Rapporto sull’economia della Calabria pubblicato da Bankitalia lo scorso giugno.
Le notizie cattive non si fermano qui, purtroppo: la percentuale delle aziende con crediti in sofferenza nel 2019 è superiore dell’80% a quella censita nel 2007, che si attestava al 3,7%, con circa 5.200 imprese nei guai.
Ma anche allora la Calabria aveva la sua brava maglia nera, sia rispetto al Sud, dove il dato era del 3,2%, sia rispetto al resto del Paese, dove oscillava attorno al 2,8%.
Segno che le grandi crisi finanziarie iniziate nel 2008 hanno colpito tutta l’Italia in maniera più o meno grave, ma hanno affossato la Calabria, dove la struttura imprenditoriale è fatta in larghissima parte di imprese di dimensioni ridotte o minuscole.
Tutta colpa del credito?
I dati elaborati da Bankitalia provengono da Infocamere e dalla Centrale dei rischi. Il che, in parole povere, significa che le imprese censite sono considerate “cattive pagatrici”.
Ma non è tutta colpa loro, anzi. «Il problema», spiega Franco Rubino, ordinario di Economia aziendale all’Unical, «è dovuto soprattutto alle pessime condizioni del credito, che mettono in ginocchio le attività».
La dichiarazione di Rubino conferma in pieno l’analisi di Bankitalia, secondo cui «la Calabria è tra le regioni con la peggiore qualità del credito».

Ma da cosa dipende questa qualità “bassa”? Senz’altro dai tassi d’interesse eccessivi che, come abbiamo già raccontato su I Calabresi, toccano il 6,7%. Cioè più del doppio del Nord.
Tutto questo, spiega ancora Rubino, «si traduce in una difficoltà di accesso al credito doppia», che può peggiorare proprio per le aziende in sofferenza.
E non è da escludersi che dietro tassi così alti si celino forme più o meno larvate di usura bancaria.
Usura e banche, missione impossibile
È difficilissimo, tuttavia, capire quando dai tassi elevati ma a norma di legge si arriva a forme di usura vere e proprie.
Il problema può essere di decimali, perché tutto ciò che supera il Taeg (il Tasso annuo globale effettivo, calcolato su tabelle elaborate periodicamente dal Ministero dell’economia), anche di uno zerovirgola, diventa usura. E in questo caso, il problema cambia, perché si va sul penale.
Perciò è impossibile censire a priori l’usura bancaria, che emerge solo in seguito a denuncia del debitore.

Ciò non toglie che i casi possono essere più alti di quanto non si creda, spiega Fernando Scarpelli, avvocato e responsabile provinciale di Cosenza dell’Adusbef, l’Associazione per la difesa degli utenti dei sevizi bancari: «In un anno difendo in media oltre venti debitori vessati», spiega Scarpelli. E l’alto numero di risultati positivi, più che un complimento al professionista, indica un’altra cosa: vincere una causa contro un istituto di credito non è difficile perché le condizioni con cui sono concessi i crediti risultano eccessive. Già: «La differenza tra un mutuo concesso con un tasso variabile, che tende ad alzarsi, e una pratica di usura bancaria può essere minima». Solo che, nel secondo caso, finisce sotto i rigori della legge, nel primo no. Ma per il debitore vessato non cambia nulla.
Peggio che andar di notte per le piccole imprese, che arrivano a pagare il 9,6% per un fido. In questo caso, prosegue Scarpelli, «i debiti si “incagliano” davvero per poco: bastano centomila euro o poco meno e si viene segnalati alla Centrale dei rischi».
Morire di debiti
Il dato più devastante riguarda la morte delle aziende in sofferenza. Secondo Bankitalia, in cinque anni oltre il 40% delle imprese segnalate alla Centrale dei rischi chiude i battenti o, peggio, fallisce. Del restante 60% solo un terzo esce dalla sofferenza. In pratica, solo 2mila aziende sulle 10mila prese a campione di Bankitalia riesce a risanarsi.
E le altre? Tirano a campare per cinque anni e passano da un creditore all’altro, perché nel frattempo le banche, per ripulire i propri bilanci, vendono i propri crediti. E non sono somme piccole: nel 2020, sempre secondo Bankitalia, le banche hanno ceduto o “cartolarizzato” crediti in sofferenza per un totale di 428 milioni di euro. Una cifra enorme, paragonata al Pil della Calabria, che nello stesso periodo perdeva l’8%, attestandosi sotto i 30 miliardi.
La morale della favola è chiara: se non fosse stato per questi tassi alti, molte imprese potrebbero reggere. Perché, rivela sempre Bankitalia, la capacità di sopravvivenza delle imprese in crisi è comunque superiore alla media nazionale e la capacità di ripresa è uguale al resto d’Italia.
Tutto questo, ovviamente, prescinde dal Covid, che ha dato la mazzata, provocando una contrazione immediata delle imprese del 3,2% nel periodo caldo della pandemia e aumentando la mortalità delle piccole imprese artigiane e terziarie.
In questo caso, è difficile accollare al credito tutte le responsabilità, perché molte aziende, soprattutto nella ristorazione, hanno semplicemente chiuso per mancanza di lavoro.
Accesso al credito
Avere sofferenze bancarie significa trovarsi nella classica situazione del cane che si morde la coda: più si hanno debiti meno credito si può avere e, soprattutto, è più difficile rinegoziare i fidi e i mutui. Con risultati devastanti: nel 2020 è emerso che circa il 44% delle imprese reggine aveva problemi enormi nell’accendere linee di credito.
Va da sé che, a prescindere dalle moratorie e dalle misure di soccorso predisposte per affrontare la pandemia, questa situazione rischia di avere solo uno sbocco. L’usura. Ma in questo caso, si passa dall’analisi economica alla cronaca giudiziaria…