Nel pacchiano lusso di una sala da cerimonie di Little Italy, budelli di chitarra si abbandonano a una melodia antica. «Junior, come on», l’anziano capofamiglia rompe gli indugi, chiude gli occhi e inizia a cantare. Così, come nel mantice della fisarmonica, due mondi si allontanano per finir riavvicinati: la seconda generazione di paisà accompagna commossa l’esibizione della prima, mentre la terza ridacchia a dissacrarla.
Corvina e ribelle, la più giovane degli eredi tracanna Martini alla goccia mentre lancia molliche di pane ai vecchi che le hanno rubato le attenzioni del padre, ché quella delle platinate star americane è musica, non questa fottuta lagna italiana. Poi esce di scena, vanamente rincorsa dal padre nelle leggendarie nuvole di vapore del traffico di New York.
Al rientro in sala della scena, la canzone fa piangere pure i baffi dei camerieri: niente riuscirebbe a rompere la solennità del momento. Il boss se ne accorge compiaciuto, sistema il nodo della cravatta e si aggrappa a ciò che resta della sua famiglia. Seduti più dietro, con un bisbiglio, una donna americana accosta la chioma laccata a quella di chi dal vecchio l’ha messa al mondo nel nuovo: «What does it mean “Core ngrato”?» (Che vuol dire Core ‘ngrato, ndr), chiede. «Ungrateful heart» (Cuore ingrato, nda)è la risposta.
È il finale della terza stagione di “The Sopranos”, la serie televisiva di culto che, secondo lo speciale del New York Times, rappresenta «la più grande opera della cultura pop americana dell’ultimo quarto di secolo». L’uomo che ha scritto i versi della ballata scelta per raccontare il tormento dei paisà è nato in una piccola casa al centro di un abitato ai piedi della Sila cosentina, ma la sua incredibile e dimenticata storia è ancora nascosta settemila chilometri più distante.
Dalla Presila a New York
È la storia di un uomo che si chiama Alessandro Sisca, nato il 27 ottobre 1875 a San Pietro in Guarano, piccolo avamposto presilano dove il padre Francesco faceva l’impiegato comunale. A soli 11 anni i genitori decidono di mandarlo in seminario però, così lascia il borgo natio per entrare nei francescani di San Raffaele a Materdei a Napoli, città di sua madre, Emilia Cristarelli.
Ben presto, però, tutti si accorgeranno che è letteraria la sua vocazione. Comincia così a scrivere con lo pseudonimo di Riccardo Cordiferro, dovuto ovviamente all’amore per l’Ivanohe, e inizia a raccogliere successi. Nel 1892 tutto cambia di nuovo, perché la chiamata alle armi incombe. Il giovane poeta non ha tempo da perdere, parte per l’America e la motivazione la lascia in un biglietto di poche righe in cui scrive: «Io non ho padroni, non servo nessuno, non riconosco l’autorità di nessun capo».
Si stabilisce prima a Pittsburgh – dove è tuttora presente una folta comunità di sampietresi – da uno zio, poi a New York. Lì, insieme a suo padre e a suo fratello Marziale, nel gennaio 1893 fonda una rivista satirica dal titolo La Follia di New York, in onore dell’omonima rivista che si edita a Napoli. Si distingue ai massimi livelli come giornalista, poeta e drammaturgo. Tanto che Emelise Aleandri in The Italian American Experience: An Encyclopedia sostiene che «Alessandro Sisca è il più prolifico e importante scrittore italoamericano del cambio di secolo». Poi nel 1911, arriva l’intuizione. In mezzo a tanti altri, scrive il testo della canzone che lo destina all’immortalità.
La porcheriola
Composta insieme al maestro Salvatore Cardillo, inizialmente nessuno dei due aveva il sentore che la canzone sarebbe stato un grande successo. Anzi, lo stesso Cardillo spesso l’apostrofava con la parola «porcheriola». Sbarcata a Napoli invece, Core ‘ngrato ha da subito una grande presa sul pubblico e cambia il verso della storia. Diventa la prima canzone napoletana di successo proveniente dagli Stati Uniti e non il contrario, come era stato fino ad allora.
Sui palchi di tutto il mondo l’hanno interpretata tutti i più grandi. Giusto per citare qualcuno: Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Tito Schipa, Luciano Pavarotti, Plácido Domingo, José Carreras, Claudio Villa, Roberto Murolo. In tempi più recenti ne hanno fatto vanto anche Mina, Vinicio Capossela, Il Volo e Andrea Bocelli, ma il testo scritto da Sisca ha saputo varcare i confini dell’arte canora, andandosi a incastrare in diverse intersezioni culturali e finendo per rimanere presente nell’immaginario collettivo contemporaneo.
Il battesimo di Franco e Ciccio
Esempi significativi arrivano dal mondo dell’avanspettacolo, del cinema e del calcio. Nel teatro “Costa” di Castelvetrano nel 1954 Core ‘ngrato è il titolo del debutto di un duo comico palermitano che si fa chiamare “Franco e Ciccio”. Il loro esordio fu del tutto casuale. La compagnia teatrale di Pasquale Pinto si era spostata da Napoli a Palermo senza un attore, Nino Formicola, che si era ammalato. Il capocomico Giuseppe Pellegrino, per sostituirlo, si rivolse a Ciccio Ingrassia. Che però era tornato a lavorare come calzolaio e inizialmente rifiutò, proponendo di contattare Franco Franchi, che aveva conosciuto poco prima e apprezzava.
Pellegrino non era convinto della scelta, in quanto avrebbe dovuto ingaggiare uno sconosciuto che non era neanche un vero attore, e contropropose a Ciccio di ingaggiarli insieme. A questo punto entrambi furono assunti dalla compagnia e iniziò un successo clamoroso. Franco non aveva né padronanza dell’italiano né delle tecniche teatrali, così prima di entrare in scena propose a Ciccio: «Senta, perché lei non entra in scena e si mette a cantare poi entro io e la disturbo?».
In un’intervista degli anni Ottanta è lo stesso Franco a ricostruire l’episodio: «Il pubblico appena vide sulla scena uno spilungone magro e uno basso e tarchiato scoppiò in una risata incontenibile. Mentre Ciccio cantava questa canzone drammatica, arrivavo io ad infastidirlo scatenandomi in una serie di gag sconnesse: la scimmia, il coccodrillo, il burattino, la bilancia, la danza del ventre, il pianto funebre siciliano. Tutto repertorio folcloristico oggi assurto a patrimonio culturale nazionale mentre allora non si concepiva che in teatro si recitasse in dialetto». Il numero durò inizialmente appena cinque minuti, ma in seguito fu allungato di quattro minuti per le richieste del pubblico, girò tutta l’Italia, arrivò in tv e segnò l’inizio di una carriera sfolgorante per i due.
Così parlò Core ‘ngrato
Quanto al cinema, già detto dei “Soprano”, Core ‘ngrato si associa a un caratterista straordinario interpretato dal compianto Antonio Allocca in Così parlò Bellavista, capolavoro di Luciano De Crescenzo, tratto dall’omonimo libro. Core ‘ngrato era un buffo esattore della Camorra che suggeriva ai poveri Giorgio e Patrizia, neo-commercianti di statuette sacre, di pagare il pizzo «prima che inizi l’escalation»; trovandosi il negozietto all’angolo di due strade contese da due clan rivali, la coppia si trova a provare a risolvere l’inghippo in scene memorabili, prima di arrendersi, chiudere bottega e trasferirsi a Milano.
Un caso che dalla pura invenzione si è realizzato nel 2016, con un chiosco di bibite ubicato nella Maddalena, sede di un noto mercato popolare a ridosso della Ferrovia in zona piazza Garibaldi, al quale veniva imposto di pagare due volte il pizzo come nel film. La contesa fra il cartello Brunetti-Giuliano-Amirante, egemone nel centro storico tra Forcella e la zona del Borgo di Sant’Antonio Abate, quello della cosiddetta ‘paranza dei bambini‘, e gli affiliati dello storico clan dei Mazzarella si risolse con la coraggiosa denuncia e l’arresto dei malavitosi.
Il goal dell’ex
Quanto al calcio, Core ‘ngrato è il soprannome affibbiato ai calciatori che dal Napoli si sono trasferiti alla Juventus. Il primo fu Josè Altafini, centravanti brasiliano naturalizzato italiano amatissimo all’ombra del Vesuvio, protagonista di una passione napoletana superata soltanto dall’arrivo di Maradona un decennio dopo. La sua cessione alla Juve ebbe un’eco vastissima e un’estate di intense polemiche. Ma fu solo dopo un suo gol al San Paolo che diede la vittoria decisiva per lo scudetto ai bianconeri che su un cancello dello stadio partenopeo comparve la scritta «Altafini Core ‘Ngrato». Il soprannome restò ad Altafini per decenni, prima di passare sulle spalle di un altro centravanti sudamericano, Gonzalo Higuain, alfiere del Sarrismo che si trasferì alla Juventus dopo l’imbattuto record di gol in campionato con la maglia del Napoli.
The Sisca papers
Forse tutto ciò basterebbe per capire come la figura di Sisca alias Cordiferro meriti di essere ripescata e studiata dagli ambiti accademici. Ma non è abbastanza per comprendere perché l’Università del Minnesota conservi in tre enormi scaffali d’archivio una imponente mole di materiale sull’emigrato calabrese che scriveva in lingua napoletana. Uno spazio importante, che meriterebbe di essere scoperto e tramandato.
Grazie agli sforzi del professor Rudolph J. Vecoli, direttore del Center for Immigration Studies dell’Università del Minnesota, la Collezione Sisca è stata depositata nell’archivio degli immigrati nell’ottobre 1968 da Michael Sisca, editore della Follia di New York. Prevalentemente in italiano, questa collezione è composta da 9,5 piedi lineari di documenti e corrispondenza. Il materiale è stato elaborato nel periodo 1973-1974 dalla studiosa Lynn Ann Schweitzer.
Perché uno spazio così importante per quello che si ricorda solo come l’autore dei versi di una canzone di successo? Perché Alessandro Sisca era molto di più. La Follia, infatti, riscosse successo tra i letterati delle colonie italiane di New York City (sei milioni di copie vendute), e si impose anche grazie alla varietà dei temi trattati, riuscendo a conquistare sempre maggiori consensi nella più ampia comunità italoamericana.
Questo successo spiegò le vele alla vera ispirazione di Sisca, l’impegno politico/sindacale in difesa dei propri connazionali emigrati, totalmente dimenticato al netto di meritevoli eccezioni (cfr. Amelia Paparazzo, Calabresi sovversivi nel mondo, Rubbettino Editore).
Un’inclinazione scomoda per gli Stati Uniti del tempo, che lo condusse a cambiare molto spesso pseudonimo, a rifugiarsi in incarichi riservati e che gli aprì le porte delle carceri americane più di una volta.
Celebre per il suo lavoro di giornalista di inchiesta (non solo con La Follia ma anche per i suoi contributi a La Sedia Elettrica, La Notizia e L’Aarlemite), a Cordiferro chiesero di parlare con diverse organizzazioni italiane di lavoratori nelle quali serpeggiava il malcontento per l’intenso sfruttamento. È stato un agitatore culturale anarchico di grande successo, con un seguito di migliaia di persone, che lo elessero infine portavoce ufficiale del comitato Utica, NY pro Sacco e Vanzetti.
Sacco e Vanzetti
La vicenda è stranota: il 23 agosto 1927, poco dopo la mezzanotte, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti venivano uccisi sulla sedia elettrica nel penitenziario di Charlestown, ingiustamente condannati per un reato che non avevano commesso. Quando il verdetto di morte fu reso noto, si tenne una manifestazione davanti al palazzo del governo, a Boston. La manifestazione durò ben dieci giorni, fino alla data dell’esecuzione. Il corteo attraversò il fiume e le strade sterrate fino alla prigione di Charlestown. La polizia e la Guardia nazionale lo attendeva dinanzi al carcere e sopra le sue mura vi erano mitragliatrici puntate verso i manifestanti.
I due italiani subirono un processo totalmente condizionato dal razzismo e dal pregiudizio nei confronti delle idee anarchiche che i due professavano, tanto che il giudice Webster Thayer non esitò a definirli «bastardi anarchici». Dopo la cremazione a portare i loro corpi in Italia fu Luigina Vanzetti. Oggi riposano rispettivamente nel cimitero di Torremaggiore e in quello di Villafalletto.
L’indimenticabile monologo di Gian Maria Volontè nel film ispirato alla vicenda di Sacco e Vanzetti
Moltissimi negli USA e in Europa si batterono per salvare la loro vita. In tutto il mondo molti intellettuali del tempo come George Bernard Shaw, Bertrand Russell, Albert Einstein, Dorothy Parker, Edna St. Vincent Millay, John Dewey, John Dos Passos, Upton Sinclair, H. G. Wells, Arturo Giovannitti sostennero a favore di Nick e Bart una campagna per giungere a un nuovo processo sostenuta persino dal premio Nobel francese Anatole France, che invocò la loro liberazione sulle pagine del periodico Nation.
Una traccia sepolta dalla polvere
Fra questi non abbiamo ereditato alcuna traccia dell’impegno dell’intellettuale calabrese Alessandro Sisca, che pur svolgeva il delicatissimo e importantissimo incarico di portavoce del movimento che da New York chiedeva la liberazione dei due. Perché? Nella imponente mole di carte custodite in Minnesota (fra cui alcune lettere di due presidenti repubblicani al fratello Marziale) potrebbe esserci la risposta al quesito. Del resto, è un fatto che i raduni per la difesa degli anarchici italiani lo trovarono spesso come il principale oratore e le sue commedie, ispirate in gran parte dalla condizione degli italiani negli States, erano frequentatissime dagli operai del tempo.

Tutto questo rappresenta una traccia incancellabile ma, come la sua casa natia ai piedi della Sila, con il tempo rischia di andare in polvere, realizzando la teoria che alcuni studiosi di canzone napoletana hanno sviluppato sul nome femminile Caterina, invocato all’inizio della sua canzone. Pare infatti che fosse il nome scelto all’epoca per rivolgersi in codice alla comunità degli italiani, quindi il vero cuore ingrato, che ha dimenticato una vita di amore e di impegno del poeta.
I dolori di Sisca furono infatti sempre più intensi: dapprima in pochi mesi perse la moglie Annina e i figli, Emilia e Franchino. Poi nemmeno un secondo matrimonio lo salvò da una forte depressione, e nel 1940 tutto questo lo condusse alla morte come fine di un sempre più acuto periodo di sofferenze. Era il 24 agosto, il giorno dopo l’anniversario dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti.