I mesi che precedettero l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale furono estremamente difficili per gli italiani d’Australia. Ore di fila davanti alle caserme di polizia, tesserini identificativi, divieti di possedere apparecchi radiofonici o macchine fotografiche, restrizioni su alcuni tipi di lavoro: la loro normalità finì sconvolta.
Da una parte c’erano i dettami della white policy sostenuta dal governo del quinto continente, che mirava a un paese abitato quasi unicamente da persone bianche (e gli italiani, così come i greci e gli jugoslavi, non erano considerati propriamente bianchi). Dall’altra, la paura che la comunità italiana presente sull’isola (in quegli anni stimata intorno alle 30mila unità che ne faceva il gruppo etnico non anglosassone più numeroso), potesse agire da quinta colonna in favore delle forze dell’Asse.
In mezzo loro, migliaia di contadini, maestri, pescatori, muratori che avevano deciso di trasferirsi down under nel tentativo di accedere a una vita migliore. Una situazione da separati in casa che precipitò il 10 giugno del ’40 quando Mussolini, tra gli applausi osannanti della folla di piazza Venezia, rese pubblica la dichiarazione di guerra contro la Francia e contro il Commonwealth britannico, di cui l’Australia era parte integrante. Il rovinoso ingresso in guerra del Bel Paese segnò infatti l’inizio di un periodo tremendo per gli italiani d’Australia, Da quel giorno e fino alla fine del conflitto divennero, loro malgrado, enemy aliens, nemici stranieri.
In internamento
Fascisti, antifascisti, anarchici ma anche semplici cittadini che avevano avuto il “torto” di avere fatto il servizio militare in patria o che finirono al centro delle delazioni dei vicini di casa. Furono tantissime le segnalazioni degli australiani che guardavano con sempre maggiore sospetto a quella comunità così eterogenea che stava mettendo radici nel loro paese. Bastava pochissimo per finire nella lista.
Migliaia di uomini e donne – molti dei quali avevano già ottenuto la cittadinanza australiana o erano stati naturalizzati – da un giorno all’altro finirono in un incubo nascosto dietro nomi rassicuranti come Loveday, Orange e Hay. Nei tre maggiori campi costruiti nelle zone più remote del continente dall’esercito australiano per contenere quella massa indistinta di umanità, furono rinchiusi in quasi 5000, poco meno del 20% dell’intera comunità italiana. Una percentuale enorme se confrontata ai medesimi provvedimenti adottati per gli enemy aliens nelle altre nazioni con cui eravamo in guerra.

I primi arresti seguono di pochi giorni la dichiarazione di piazza Venezia. Nel mirino del ministero della Guerra finiscono tutti quelli che potrebbero, anche lontanamente, costituire una minaccia per il Commonwealth, donne e anziani compresi. Una rete dalle maglie fittissime in cui finiscono impigliati migliaia di innocui lavoratori, in una sorta di criminalizzazione etnica che lasciò strascichi pesantissimi sulla comunità italiana. Famiglie divise, attività economiche perdute, sequestri di beni: una pagina nerissima della storia australiana del ventesimo secolo costruita più su un pregiudizio razziale che su un reale pericolo.
Arrestateli tutti
I primi a finire in arresto, oltre ai pochi fascisti che agivano alla luce del sole, furono i pescatori di Bagnara Calabra che agli antipodi avevano messo in opera le loro conoscenza del mare diventando, assieme ai colleghi di Molfetta in Puglia, i maggiori protagonisti del settore ittico in New South Whales e in South Australia. La loro colpa, muoversi su pescherecci d’altura che avrebbero potuto favorire l’ingresso nel Paese di spie e armi per la conquista del continente.
Ma a finire nei campi d’internamento – vere e proprie carceri con torrette, filo spinato e guardie armate, costruite a migliaia di chilometri dai centri abitati spesso nelle zone desertiche del continente – furono tantissimi semplici lavoratori che nulla avevano a che fare col fascismo e nulla avevano a che fare con la guerra.
Processi sommari
«È italiano, è giovane, ha svolto il servizio militare. Queste sono le uniche cose che bisogna prendere in considerazione. La domanda deve pertanto essere respinta»: si erano infrante su queste poche parole, pronunciate a margine dell’udienza per la sua scarcerazione, le speranze di Giuseppe Panetta di ritrovare la libertà. La polizia militare lo aveva arrestato a Cabramatta, una trentina di chilometri a sud est di Sydney, tre mesi prima, nell’ottobre del 1940.
Ma già nelle settimane e nei mesi precedenti, gli uomini in divisa si erano presentati alla sua porta tante volte per interrogarlo. Due anni prima, nell’agosto nel 1938, si era imbarcato in terza classe sul transatlantico Oronsay assieme al fratello Michele: partivano da Martone, piccolo borgo arroccato sulle colline dello Jonio reggino, destinazione Sydney.

«Sono venuti ad arrestarmi, ma nessuno di loro mi ha detto perché. Mi hanno chiesto dove lavoravo, dove vivevo e con chi, ma nessuno mi ha mai letto le accuse per cui venivo arrestato». Sono passati tre mesi dalla sera in cui i militari lo hanno trasferito nel campo di detenzione di Hay, nelle desolate zone desertiche del NSW e Panetta è riuscito, grazie all’aiuto di un altro detenuto calabrese che farfuglia qualche parola d’inglese, a presentare domanda di rilascio al tribunale che si occupa degli enemy aliens.
«Io sono venuto in Australia per lavorare – racconta ai giudici – perché in Italia non guadagnavo abbastanza per mantenere la mia famiglia. Sono arrivato qui grazie alla chiamata di mio zio e appena avrò denaro sufficiente farò arrivare anche mia moglie e i miei quattro figli». La sua storia è simile a quella di tanti che come lui sono finiti senza prove nei campi disseminati nel bush australiano.

Ma ai giudici che lo interrogano, paradossalmente, non interessa troppo la sua vita in Australia: loro vogliono sapere di quando si trovava in Italia. «Sì, ho fatto il militare quando avevo 21 anni – risponde Panetta, che di anni ormai ne ha 33 – tre mesi di addestramento in artiglieria e poi il resto della leva a riparare dormitori e caserme. Facevo il muratore. Non sono mai stato iscritto al partito fascista, non mi interessava». In effetti Panetta non ha mai preso la tessera del partito e quella scelta aveva finito anche per pagarla molto cara, ma i giudici non gli credono e su quel tasto insistono parecchio.
«Nessuno mi ha mai chiesto di iscrivermi al partito fascista, e io non sono mai andato a cercarli – racconta ancora ai giudici – non avevo niente da spartire con i fascisti. Prima di venire in Australia avevo anche chiesto al potestà del mio paese di poter partire per l’Etiopia, ma la mia richiesta fu respinta perché non avevo la tessera del partito. Mi disse che se volevo partire, avrei potuto farlo come soldato, ma che senza la tessera non mi avrebbero mandato come semplice colono».

Non era un fascista Giuseppe Panetta (così come non erano fascisti migliaia degli internati nei campi), né una minaccia: era un lavoratore, un migrante economico ante litteram. E in testa aveva solo il pensiero di fare un po’ di soldi per farsi raggiungere dalla famiglia. Esattamente come i disperati che ogni giorno arrivano sulle nostre coste a bordo di scassati barchini. La sua colpa era di essere giovane, in salute e di provenire da un paese lontanissimo ma in guerra con il paese dove si era rifugiato per scappare dalla miseria.
«Pur non essendoci alcuna prova di attività fasciste del soggetto – annota a verbale J.D. Holmes, rappresentante della pubblica accusa in nome del ministero della Guerra britannico – egli ha vissuto nei sei mesi precedenti all’ingresso in guerra dell’Italia a casa di un iscritto al partito fascista (un conterraneo per cui Giuseppe Panetta lavorava e che gli aveva concesso, compreso nel salario, l’uso di una brandina dove dormire, ndr). E se è vero che il padrone non è tenuto a dare spiegazioni ai propri operai sulle proprie attività politiche – dice il pm – lui non poteva non sapere. Abbiamo davvero poco materiale per attaccare lui o il suo comportamento in Australia, tuttavia il soggetto ha quella nazionalità (italiana, ndr), è giovane e ha prestato servizio militare. Questi, signori, sono gli unici argomenti che occorre sottolineare».
Una giustizia tremendamente ingiusta a cui il governo australiano tenterà di porre rimedio, con scuse ufficiali per quella ingiustificabile sospensione dei diritti civili, solo nel 1991. In quel campo, Panetta, ci trascorrerà altri tre anni prima di essere trasferito, assieme a tanti altri detenuti italiani, nei Civil Aliens Corps, le unità che raggruppavano lavoratori da destinare ai settori economici interni che più pagavano l’assenza di manodopera australiana impegnata al fronte.
Lavori forzati
All’alba dell’armistizio quindi, siamo nel 1943, la situazione per gli enemy aliens all’interno dei campi comincia un po’ ad alleggerirsi. Ma le autorità militari australiane non sono ancora disposte a rilasciare gli internati per farli tornare alle loro case e alle loro professioni. Vengono così istituite delle unità lavorative in cui incanalare gli uomini che venivano rilasciati dai campi d’internamento: minatori nelle cave di sale, taglialegna nelle foreste pluviali, operai impegnati nella costruzione della ferrovia panaustraliana che deve collegare, attraverso migliaia di chilometri di deserto, il Northern Territory con il South Australia. Nei Civil Alien Corps poi finiscono anche quegli enemy aliens che erano riusciti a scampare agli arresti del ’40: «In pratica – scrive Isabella Cosmini Rose dell’università di Adelaide – ogni uomo compreso tra i 18 e i 60 anni poteva essere costretto a prestare servizio nei Cac».

Ma i campi di lavoro sono diversi da quelli d’internamento. Le regole sono dure ma meno stringenti, le baracche non hanno le sbarre e i lavoratori, se il loro comportamento viene giudicato consono, possono anche tornare dalle loro famiglie per un paio di giorni ogni mese. E poi nei Cac, gli enemy aliens vengono pagati, anche se con stipendi decisamente inferiori a quelli dei colleghi australiani. Ma i lavori a cui gli enemy aliens vengono destinati sono duri, in alcuni casi durissimi. E sono tanti che, sfruttando l’assenza di guardie armate, ne approfittano per scappare e tornare qualche giorno a casa. Multe salatissime e il concreto rischio di arresto non furono sufficienti a trattenere i lavoratori nel campo.
Domenico Cirillo era partito da Caulonia nel 1935, destinazione Adelaide. Quando fu “arruolato” nei Civil aliens corps fu mandato a Port Price nella penisola di York a lavorare nelle cave di sale. «A Port Price estraevamo il sale con le pale e i picconi. C’erano altri 6 italiani con me e dormivamo sul pavimento senza un materasso, solo con un cuscino e un lenzuolo. A terra era così freddo che si rischiava il congelamento e così un giorno chiesi al mio capo il permesso di tornare a Adelaide a prendere qualche coperta ma si rifiutò. Determinato a prendere le coperte, un venerdì notte, presi segretamente il furgone della posta fino a Port Wakesfield e da lì il treno fino a Adelaide. Il mattino dopo sono andato al commissariato e sono stato multato di 50 sterline».
Tra il 1942 e il 1945 furono 1058 i procedimenti avviati e 947 furono le condanne emesse. In 305 casi le sentenze furono di internamento e i rimanenti procedimenti finirono con delle multe. Uno degli stranieri fu punito con 21 giorni di carcere con l’accusa di avere lasciato il campo viaggiando da Port Augusta a Findon senza permesso.
L’uomo, Luigi Fazzolari anche lui partito da Caulonia, ha raccontato: «All’Allied Works Council mi avevano detto che mi avrebbero dato un lavoro leggero ma quando sono arrivato là, il capo mi ha detto che avrei lavorato con il piccone e la pala. Gli ho detto che non avrei potuto farlo a causa delle mie condizioni di salute e gli ho chiesto un lavoro più leggero o di essere messo nelle cucine. Mi ha risposto che non c’erano lavori leggeri e che non mi avrebbe messo in cucina. Così ho deciso di tornare a Findon dalla mia famiglia. Volevo tornare là per vedere un medico e per andare all’Allied Works Council a chiedere ancora che mi dessero un lavoro leggero».
Una pagina nerissima e colpevolmente poco conosciuta dell’emigrazione in Australia che vide coinvolti centinaia di calabresi che dall’altra parte del mondo ci erano finiti per inseguire una vita migliore e a cui furono sospesi diritti civili e di cittadinanza.