«Ma è sicuro di quel che dice?», chiede Remo Smitti, pm della Procura di Venezia.
«Sicurissimo dottore, sono ottant’anni che faccio la guerra al mio cognome», risponde il teste.
L’interrogato è Pietro Buffone, vecchia gloria della Democrazia cristiana, non solo calabrese. È il 23 novembre 1999. Siamo sempre a Venezia, in Corte d’Assise, dove si svolge un dibattimento delicatissimo, su un mistero “minore”, ma non per questo meno tragico della storia repubblicana.
Tra gli incriminati, c’è una figura eccellente: Zvika Zarzevsky, più conosciuto come Zvi Zamir, ex capo del Mossad. Sullo sfondo, un disastro areo: il caso Argo 16.
Argo 16: uno schianto a Marghera
È l’alba del 24 novembre 1973. L’Argo 16, un bimotore Douglas C47-Dakota in dotazione al 306° gruppo del 31° stormo dell’Aeronautica Militare.
L’aereo è decollato da poco dall’Aeroporto “Marco Polo” di Venezia per raggiungere la base Nato di Aviano. Ma poco sopra Porto Marghera, a Mestre, succede qualcosa.
Il velivolo perde quota, urta un lampione e precipita verso le strutture della Montedison.
Evita per un soffio gli enormi serbatoi di combustibile dello stabilimento petrolchimico e si schianta sull’ingresso del Centro elaborazione dati della Montedison: il muso dell’aereo sfonda l’atrio e devasta gli uffici. Un pezzo della fusoliera si stacca nell’impatto e finisce nel cortile, dove demolisce venti auto parcheggiate.
Lo strano incidente di Argo 16
In quest’incidente terribile perdono la vita i quattro membri dell’equipaggio: il colonnello Anano Borreo, capo-equipaggio, il tenente colonnello Mario Grande, secondo pilota, e i marescialli Aldo Schiavone e Francesco Bernardini rispettivamente motorista e marconista.
Ma è davvero un incidente? Secondo l’Aeronautica Militare, che ordina un’inchiesta frettolosa, sì. Ma c’è chi nutre seri dubbi: il deputato missino Beppe Niccolai, che deposita un’interrogazione scritta al Ministero della difesa il 10 agosto 1974.
Seconda domanda: cosa c’entra Pietro Buffone in questa vicenda?
Pietro Buffone: il sottosegretario dei segreti
In quel periodo terribile, Buffone è sottosegretario alla Difesa nel quarto governo di Mariano Rumor, che gli conferma l’incarico rivestito nel precedente governo Andreotti.
Il deputato calabrese non è un sottosegretario qualsiasi, ma vanta un piccolo record: è il primo a gestire la delega ai Servizi segreti, fino ad allora riservata ai presidenti del Consiglio.
Sull’argomento, Buffone è un esperto, visto che ha fatto parte della Commissione d’inchiesta sul Sifar, il Servizio militare, che in quegli anni si chiama Sid, e sa vita, morte e miracoli dei nostri 007. Soprattutto, ne conosce i peccati.
L’antefatto: terroristi palestinesi in Italia
Il 5 settembre 1973 emerge una strana notizia: i nostri Servizi segreti sventano un attentato contro un areo di linea della El Al, la compagnia di bandiera israeliana.
Il bersaglio reale degli attentatori sarebbe Golda Meir, la premier israeliana in visita in Italia.
Grazie a una soffiata del Mossad, gli agenti segreti ammanettano cinque arabi, legati a Settembre Nero, l’organizzazione terroristica palestinese interna all’Olp di Yasser Arafat. Due di loro hanno il passaporto algerino e, su pressione di Gheddafi, vengono messi in libertà provvisoria il 30 ottobre.
Il giorno successivo vengono “esfiltrati” in Libia. Li trasporta l’Argo 16, che fa un breve scalo a Malta, prima di portarli a destinazione.
Oltre ai due libici, a bordo ci sono quattro funzionari del Sid, tra cui il capitano Antonio Labruna e il colonnello Stefano Giovannone.
Intermezzo: rivalità nei Servizi
Tra i peccati delle nostre barbe finte uno è particolarmente grave. Anzi mortale: la rivalità interna.
Il capo del Sid, nella prima metà degli anni ’70, è il generale dei Bersaglieri Vito Miceli, che si distingue per uno spiccato filoarabismo e per la vicinanza a Gheddafi.
Il numero due del Sid è il generale Gianadelio Maletti, capo dell’Ufficio D e acerrimo rivale di Miceli.
Maletti è il collegamento tra gli israeliani e il Sid. Questa schizofrenia dei nostri servizi trova un equilibrio nel 1973, grazie a una spregiudicata operazione condotta da Aldo Moro.
Il lodo Moro
Stefano Giovannone, uomo di fiducia di Moro e capocentro del Sid a Beirut, è l’uomo chiave del lodo Moro, un accordo di diplomazia parallela (cioè fuori dai canali diplomatici ufficiali) e asimmetrica (cioè tra uno stato e organizzazioni non statali).
Il contenuto dell’accordo è semplice ed efficace: l’Italia avrebbe tutelato gli uomini dell’Olp e questi si sarebbero astenuti dal fare attentati sul nostro territorio. Come, ad esempio, quello del 17 dicembre del 1973.
L’attentato di Fiumicino
Sono quasi le 13 del 17 dicembre 1973. Cinque palestinesi entrano nel terminal di Fiumicino e si mettono a sparare all’impazzata.
Uccidono due uomini e raggiungono un Boeing 707 della Pan Am. Vi gettano dentro una bomba al fosforo e due granate. L’esplosione uccide trenta passeggeri, tra cui quattro italiani.
Poi, gli attentatori salgono a bordo di un altro aereo: un Boeing 737 della Lufthansa diretto a Monaco. Prendono sei ostaggi e lo dirottano. Dopo un volo rocambolesco, l’aero atterra a Kuwait City, dove i cinque tornano in libertà.
Argo 16: il processo
L’Argo 16 è un areo che scotta: non trasporta solo agenti segreti e presunti terroristi arabi. Ma si occupa soprattutto dei membri di Gladio, l’organizzazione Stay Behind italiana: li porta periodicamente a Poglina in Sardegna, dove c’è il loro centro d’addestramento.
Anche per questo particolare utilizzo dell’Argo 16, l’“incidente” di Porto Marghera è al centro di dietrologie dure a morire. Soprattutto perché su questa vicenda non ci sono chiare verità giudiziarie.
Il primo magistrato a occuparsene è il giudice istruttore Carlo Mastelloni, che mette sotto inchiesta Zvi Zamir, il suo braccio destro Asa Leven e 22 ufficiali della nostra Aeronautica.
Il teorema di Mastelloni è inquietante: sono stati gli Israeliani.
Buffone il superteste
Illuminante, al riguardo la testimonianza di Buffone, che conferma le dichiarazioni del generale della Guardia di Finanza Vittorio Emanuele Borsi.
L’ex sottosegretario traccia un nesso inquietante tra il fallito attentato di Ostia, il disastro dell’Argo 16 e la strage di Fiumicino.
Secondo quanto gli avrebbe confidato Maletti, il responsabile di questo intrigo sarebbe stato Miceli.
Miceli avrebbe liberato i due libici, nonostante il contrario avviso di Maletti. E l’Argo 16 sarebbe stato sabotato dagli israeliani per ritorsione.
Sempre Miceli avrebbe dato l’assenso all’attentato di Fiumicino, come risposta agli israeliani.
Il processo finisce in niente
Alla fine, il processo naufraga dietro la classica sequenza di insufficienze di prove, che per il codice di Procedura penale, entrato in vigore poco prima di Tangentopoli, equivale alla formula piena.
Zamir e gli altri imputati la fanno franca, anche perché il segreto di Stato massacra l’istruttoria di Mastelloni. Tutto questo sebbene Maletti e Cossiga confermino, l’anno successivo le dichiarazioni di Buffone.
Argo 16 e i documenti distrutti
Il 29 gennaio scorso si è celebrato in sordina il decimo anniversario di Buffone, spentosi ultranovantenne nella sua Rogliano.
Il caso Argo 16 è solo uno dei dossier su cui l’ex big ha messo le mani. Di molti altri non si sa nulla perché, una volta ritiratosi a vita privata, Buffone ha distrutto ogni documento.
Nulla da nascondere a livello personale, ci mancherebbe. Solo il senso dello Stato di cui ha dato prova una persona in guerra perenne col proprio cognome.
Una guerra vinta.