Al posto della chiave inglese, il microfono e le cuffiette. Invece della rumorosa catena di montaggio, il silenzio della propria stanza. Così vivono la loro giornata gli operatori della Abramo Customer Care, le vocine anonime che spesso mandiamo a quel paese se rispondendo al telefono ci rendiamo conto che dall’altra parte c’è un call center. Da quando lo smart working ha sostituito le postazioni ricavate in cabine e scrivanie, tantissimi di loro lavorano confinati in casa, isolati dai propri colleghi.
In Calabria, Sicilia e a Roma 3mila sono i dipendenti di questa fabbrica immateriale. Team leader e operatori al netto percepiscono otto euro all’ora. Mentre le società committenti fatturano centinaia di milioni, i contratti part-time permettono ai lavoratori di portare a casa tra i 650 e i 950 euro mensili. Da ormai tanti giorni vivono in solitudine l’agonia dell’impresa di cui sono dipendenti.
Il 18 febbraio scorso, Heritage Venture Ltd Investment Company aveva manifestato disponibilità all’affitto del ramo d’azienda. Ma il 24 marzo comunicava al Tribunale di Roma e agli organi competenti di «non ritenere più valida ed effettiva l’offerta di affitto ponte d’urgenza». Il fondo irlandese precisava che «il trascorrere del tempo senza alcun riscontro e l’aggravarsi della situazione di mercato della Abramo rendono per noi non più proseguibile questa iniziativa». In seguito, s’era detto pronto ad acquistare la società all’asta che però il 22 luglio scorso è andata deserta.
Un digitale sfuggevole
Il cosiddetto terzo settore avanzato avrebbe dovuto rimpiazzare il sogno naufragato di insediamenti industriali che nella zona a nord di Cosenza non hanno mai attecchito. Qui è tangibile “lo sviluppo senza gioia”.
In Calabria, nella seconda metà del ‘900, l’illusione che poter impiantare fabbriche ovunque fosse possibile aveva seminato scheletri di incompiute e veleni industriali provenienti da altri territori, senza però redistribuire ricchezza tra la popolazione.
Negli ultimi decenni del secolo scorso, si è affermata la convinzione che un’economia basata sul digitale e sulla telematica potesse rimpiazzare il sogno tradito di importare al sud almeno una parte della produzione industriale italiana. Così migliaia di persone hanno potuto lasciare la propria famiglia d’origine per generarne una nuova, contrarre mutui, evitare l’emigrazione, prestando la propria opera in modalità intermittente, cioè “a chiamata”, all’interno di queste nuove promettenti imprese.
Oggi la crisi di aziende come Almaviva e Abramo certifica la fine di questa illusione. Tra i lavoratori di questo settore serpeggia un mix di timore e attesa. Raccontano storie di rassegnazione, ma anche di orgogliosa rivendicazione dei propri diritti. “Paternalista” è l’aggettivo ricorrente che spesso adottano per evidenziare l’atteggiamento del titolare dell’azienda, Gianni Abramo. Gli subentrò per quasi tre anni il fratello Sergio, sindaco di Catanzaro e di recente transitato nel partito “Coraggio Italia” di Giovanni Toti. Le redini dell’impresa tornarono interamente a Gianni nel 2016.
Tanti dei suoi dipendenti lo dipingono come un uomo disponibile ad aiutarli nei momenti difficili e ne esaltano la conduzione della Abramo CC con le modalità di una “grande famiglia”. Nei messaggi privati, qualcuno gli scrive che lo considerava “più di un padre”, riconoscendogli di aver sempre tenuto “alla sua azienda e ai suoi lavoratori più della sua vita”. Al tempo stesso, c’è chi segnala il rischio che in ogni famiglia persino il migliore dei padri possa divenire padrone.
Una causa tira l’altra
Sarà stato anche questo il motivo che ha spinto alcune operatrici a ribadire un principio elementare: ogni lavoro impone doveri, ma anche diritti. Ci sono storie di rara indignazione, come quelle di Concettina Pezzulli e Francesca Passarelli, che pur avendo maturato negli anni un rapporto di fedeltà nei confronti dell’azienda, a un certo punto si sono sentite costrette a chiedere l’intervento di un giudice.
Concettina ha gli occhi vispi e un dolcissimo volto che s’imperla di lacrime quando rievoca i momenti più aspri della propria vicenda. «Sono stata assunta nel 2007 – racconta – e già l’anno successivo mi hanno assegnato il compito di coordinare il lavoro di altri colleghi. La direzione mi ha anche affidato incarichi di alta responsabilità, come recarmi in Albania per la start up di un nuovo call center». Come spesso accade, i problemi per Concettina iniziarono quando decise di tesserarsi a un sindacato.
«Nel marzo 2017 – prosegue l’operatrice – fui eletta RSU per la Uilcom. Già negli anni precedenti, quando avevo mansioni di coordinamento, non volli esercitare pressione sui collaboratori a progetto, che non avendo un rapporto di subordinazione non possono essere inquadrati in turni lavorativi. Nel 2018, a tutti gli altri team leader l’azienda propose un avanzamento di livello, promuovendoli al quarto. A me no! Anzi, fui demansionata, mi imposero di tornare in cuffia».
Così Concettina decise di fare causa. Il 7 luglio 2020 il giudice del Lavoro, Alessandro Vaccarella, le ha dato ragione, ordinandone l’inquadramento nel quinto livello. «È passato più di un anno – conclude la lavoratrice – ma l’azienda non ha ancora applicato la sentenza. Tutto ciò in me genera impotenza, frustrazione, crisi profonda. In tanti anni di lavoro, m’aspettavo un riconoscimento. Invece, ho ottenuto solo richiami verbali, richieste di rientro in presenza durante la pandemia. E tra i miei colleghi c’è stato pure chi mi ha consigliato di lasciare il sindacato».
Ostilità verso le mamme
Sulla scia di Concettina, anche la crotonese Francesca Passarelli ha deciso di ribellarsi. «Dopo essere tornata dalla maternità – racconta l’operatrice – ho avvertito un clima di totale ostilità nell’azienda, da parte dei superiori e persino dei colleghi. Due anni e mezzo di pressioni su di me, in molti casi documentate, finché non hanno messo in campo il demansionamento. Ti chiedono: “Ma vuoi proprio farlo l’allattamento? È preferibile non prendere astensione”. È così che inizia tutto. Se non rinunci ai tuoi diritti, la paghi. Se vuoi lavorare, crescere tuo figlio diventa insostenibile».
Così, anche Francesca si è rivolta a un legale. «Ho trovato la forza di rinchiudermi in un’aula di tribunale – prosegue Passarelli – per difendere con le unghie e con i denti la mia dignità di mamma. Il procedimento sta proseguendo, tra vari rinvii. Si è un po’ allungato anche a causa della pandemia, ma io sono fiduciosa. Credo molto nella giustizia”.
In caduta libera
La competizione spietata delle altre imprese che delocalizzano e abbattono i costi, la deregolamentazione nella gestione delle commesse Telecom, l’abbassamento qualitativo delle prestazioni in smart working dal primo lockdown in poi, l’assenza di un programma di rilancio. Sarebbero queste le principali cause visibili della crisi che ha investito l’intero settore in Calabria.
Per la Abramo CC il calo delle commesse sta comportando il collasso. Dalle 10mila chiamate giornaliere che nel 2019 gestiva per Telecom, si è scesi a 3mila. «Tim è certamente la commessa più solida e importante di Abramo – spiega Valeria Maria Tarasio, già team leader sulla commessa Vodafone -, ma negli ultimi anni anche il fatturato di Vodafone raggiungeva circa mezzo milione al mese, con 250 co.co.co che effettuavano chiamate in outbound».
«Peccato – continua Valeria Maria – che il committente non si sia più fidato della condizione precaria di Abramo in concordato. E a partire da gennaio ha ridotto i volumi gradualmente, fino alla chiusura totale al 15 settembre. Ci hanno rimesso il posto circa 250 operatori, di cui 150 della sede di Montalto, alcuni dei quali lavoravano su questa commessa da più di 10 anni. Purtroppo, trattandosi di lavoratori precari, nessuna clausola di salvaguardia sociale ha potuto salvarli. L’intero staff è al momento in attesa di conoscere la propria sorte».
Le attività sono transitate su altri partner di Vodafone, ma gli operatori di Abramo sono rimasti a spasso. Così non è andata, per esempio, con la commessa di HO mobile, assorbita a maggio da Transcom, operazione in cui sono state correttamente utilizzate le clausole sociali che hanno costretto Transcom ad aprire una sede a Rende e ad assorbire tutti i dipendenti operanti su questa commessa.
Invece, per gli operatori rimasti al servizio della Abramo CC, i guai non sono finiti. La crisi dell’azienda ha provocato scompensi per centinaia di famiglie. In passato i pagamenti sono stati sempre puntuali, ma nel 2020 la situazione è mutata. Lo stipendio di ottobre non è mai stato corrisposto. Nello stesso anno è saltato pure il 30 per cento della mensilità di settembre. E a fine annata la tredicesima è stata calcolata solo su due mesi di prestazione. Oggi la cassa integrazione oscilla tra una media di cinque giornate mensili per i team leader e un massimo di quindici, come nel caso degli operatori della sede di Catanzaro.
La Regione assente
I sindacati non hanno mai avuto vita facile in questo settore. L’anno scorso i confederali promossero un bizzarro sit-in domenicale davanti all’azienda, convocandolo soltanto la sera prima. Adesso lamentano la mancata consegna di un piano industriale, sebbene il nuovo direttore generale, Giovanni Orestano, lo avesse promesso nel marzo 2020. All’epoca si prospettava l’alternativa di un’espansione dell’azienda in settori diversi dalle telecomunicazioni, come quello assicurativo oppure nel finanziario. Ciò non è avvenuto.
«Fino ai primi mesi del 2019 tutto sembrava rose e fiori, nonostante una certa miopia nella gestione del personale e nelle scelte strategiche. Poi l’azienda Abramo ha iniziato la sua parabola discendente, motivandola con un notevole calo di volumi della Commessa Tim, che equivale al 70% del suo fatturato milionario annuo», raccontano gli operatori aderenti al sindacato Cobas. «A ogni inizio mese speriamo di non ricevere messaggi aziendali come successo a fine 2020, quando siamo stati informati del blocco dei pagamenti. Da qualche mese – proseguono i dipendenti – è attivo un tavolo di crisi presso il MISE, alla presenza di tutti i soggetti possibilmente coinvolti, comprese le istituzioni locali e regionali».
«La Regione Calabria – proseguono – è l’unica che non ha mai partecipato ai tavoli convocati. Né con il suo presidente né con l’assessore o un membro della giunta regionale, né con un dirigente del settore Lavoro. E questo fa rabbia. Soprattutto sapendo che fra 20 giorni il consiglio regionale sarà rinnovato e questa gente verrà nuovamente rieletta. Crediamo sia necessario che le grandi aziende che fanno capo alla filiera vengano messe spalle al muro. Internalizzare i servizi di contact center – concludono i Cobas – è l’unica soluzione per poter fornire sicurezza occupazionale, salari dignitosi e inquadramenti contrattuali adeguati a tutti noi che ci troviamo periodicamente a fare i conti con i cambi d’appalto o con crisi aziendali di questo tipo».
Brutte nuove
Nelle ultime ore, due notizie hanno suscitato ulteriore sconforto tra i lavoratori. Non ha niente di incoraggiante l’annuncio “Vendesi” apparso on line sul capannone che da anni a Montalto ospita la Abramo CC, sebbene da più parti ci si affretti a segnalare che lo stabile è in vendita già da tempo per recuperare liquidità. Dal faccia a faccia tra i vertici dell’azienda e i rappresentanti sindacali, giovedì scorso, è emerso che si andrà verso l’amministrazione straordinaria, con udienza a Roma il 13 ottobre. E che Poste italiane pagherà direttamente gli stipendi fino al 1° dicembre, data di scadenza della commessa. Se qualche azienda deciderà di acquisire Tim, in blocco o per singola attività, tutti auspicano l’applicazione della clausola di salvaguardia sociale. Garantirebbe l’assorbimento dei dipendenti della Abramo CC.
Altrettanta preoccupazione ha scatenato un post, circolato nelle chat, che attesterebbe la volontà dell’azienda di costruire “un nuovo team per il sito sloveno” e verificare la disponibilità degli operatori a farne parte. I più ottimisti intravedono nell’annuncio la semplice possibilità che si aprano condizioni per lavorare oltre l’Adriatico. I critici sbuffano: «Mentre qua non si sa neanche se paga gli stipendi, all’estero apre nuove attività». Gli scettici sono sicuri che si tratti di fake news. Ma nella “società artificiale”, purtroppo, “ciò che deve accadere accade”.