Per abortire, la prima porta a destra. Percorri il corridoio, evitando di guardarti intorno, ti chiedi cosa ti aspetta e hai già la risposta a quella domanda: «Adesso non è il momento».
Non è il momento giusto per un figlio, lo dicono quasi sempre le donne quando arrivano in ospedale con il certificato rilasciato dal consultorio familiare o dal medico curante, entro le dodici settimane di gestazione la loro gravidanza verrà interrotta.
All’ospedale di Cosenza 250 Ivg l’anno
Ospedale civile di Cosenza, reparto di ostetricia e ginecologia: qui ogni anno nascono in media oltre 2000 bambini e – sempre qui – vengono effettuate circa 250 interruzioni volontarie di gravidanza, a praticarle c’è un solo ginecologo, l’unico non obiettore di coscienza.

È il giovedì il giorno delle Ivg: una sigla per non dire, per capirsi al volo. È il giorno della settimana in cui l’unico medico pro-aborto dell’intera azienda ospedaliera si occupa delle donne che hanno deciso di non portare avanti la gravidanza ed esercitano il loro diritto a interromperla, un diritto sancito dalla legge 194. Fino alla nona settimana di gestazione l’aborto avviene attraverso il metodo farmacologico, dalla nona alla dodicesima settimana – ma fortunatamente si ricorre a questa pratica sempre meno – si deve intervenire chirurgicamente. Il turno in reparto del dottor Francesco Cariati il giovedì è diviso tra le gestanti e le donne in attesa di Ivg.

Un solo ginecologo non obiettore
«Io sono abituato a dare la vita, è il mio lavoro – chiarisce – ed è molto difficile far coesistere la mia attività di ginecologo che accompagna le donne fino al parto con quella di medico non obiettore che aiuta ad abortire. Da una parte do la vita, dall’altra devo interromperla. Perché lo faccio? Per garantire un diritto: quello che hanno le donne di accedere a un servizio che la legge impone agli ospedali di fornire». Una questione che ne implica molte altre, che spesso rischiano di disperdersi nella pozza torbida del pregiudizio: «ci sono donne disperate – spiega Cariati – che se non hanno la possibilità di abortire in ospedale potrebbero finire in situazioni di illegalità e mettere a rischio la loro vita». Si sente solo? «Molto – ammette -. Soprattutto perché è complicato garantire ogni settimana questo servizio. I ginecologi obiettori di coscienza sono animali in via di estinzione» scherza. Ma poi torna serio, «lavoriamo sul filo dei giorni, il tempo è prezioso. Per le Ivg chirurgiche ho bisogno di anestesisti, ostetriche e infermieri anche loro non obiettori e sono pochissimi, bisogna organizzare e incastrare i turni di lavoro. Al di là delle ferie programmate sempre tenendo conto delle urgenze delle pazienti, non possiamo permetterci di assentarci. Altrimenti il servizio si interrompe».
Leggere nello sguardo delle donne
Nel silenzio ovattato rotto solo dai pianti dei neonati che reclamano la poppata, ad accogliere le donne che arrivano per abortire – dietro porte anonime per garantire la privacy di chi entra – c’è un piccolo staff di professionisti che, innanzitutto, non le giudicheranno. Proveranno ad afferrare sguardi sfuggenti, dopodiché, nel rispetto della volontà di ogni donna, si avvierà l’iter dell’Ivg.

Manuela Bartucci fa l’assistente sociale in ospedale e lavora in stretta sinergia con Cariati, ha costruito un dialogo costante con la rete territoriale dei consultori familiari. Con lei le pazienti hanno il primo colloquio quando arrivano in ospedale. «Ho imparato con il tempo e l’esperienza a leggere negli sguardi delle donne – racconta – a cogliere un segnale di tentennamento, a decifrare la comunicazione non verbale. Io sono lì per capire se c’è qualcosa che potrebbe far cambiare il destino di quella donna».
Le precarie e le lavoratrici che non vogliono figli
Alla base della scelta di interrompere una gravidanza, racconta, spesso – ma non sempre – c’è una condizione di precarietà: grosse difficoltà economiche, mancanza di una relazione stabile, situazioni lavorative senza garanzie. Ci sono ragazze che hanno appena trovato un impiego e hanno paura di perderlo o studentesse universitarie che temono di non riuscire a portare a termine gli studi. «In questi casi metto sul tavolo tutte le soluzioni che potrebbero rappresentare un appiglio – dice -. Magari non hanno consapevolezza delle opportunità e dei diritti, dal reddito di cittadinanza all’assegno unico. Sono sempre loro a scegliere, ma – afferma con orgoglio – molti bambini alla fine sono nati».

Sono soprattutto italiane
Le donne che intraprendono il percorso di interruzione della gravidanza arrivano sole, oppure accompagnate da un genitore, dal compagno o dal marito. Sono soprattutto italiane, hanno in media tra i 25 e i 35 anni. Poche, circa il 5%, le minori tra i 16 e i 18 anni, qualcuna al di sotto dei 15. Ci sono poi molte donne migranti soprattutto marocchine, nigeriane, romene, moldave.
Ma il quadro non è completo. Dal lockdown ad oggi si è fatto largo un dato nuovo: a richiedere l’Ivg sono sempre di più donne italiane sopra i trent’anni, con una posizione lavorativa stabile ma fortemente determinate a non avere figli, «in questi casi ci troviamo di fronte ad una scelta di vita e dunque a una decisione irremovibile».
Storie di ripensamenti e storie di abbandoni
Adesso sua madre non vede l’ora di essere nonna
Le storie sono tante e rimangono attaccate addosso a chi fa l’assistente sociale in un posto come questo, «è difficile tornare a casa e liberarsene facilmente». Ne ricorda tante, alcune a lieto fine altre no. «Qualche settimana fa si è presentata qui una donna di circa trent’anni. Voleva abortire ma nei suoi occhi ho letto il tormento. Ho provato a parlarle, lei è scoppiata a piangere, si è aperta. Non posso dirlo a mia madre, ha detto. In paese la gente mi criticherebbe e la mia famiglia si vergognerebbe di me. L’ho invitata ad affrontare tutto con lucidità e coraggio, a prendersi qualche giorno per parlare senza timore con sua madre. Beh, lo ha fatto e all’inizio non è stato semplice, ma continua a mandarmi dei messaggi, mi ringrazia per averla aiutata, adesso sua madre non vede l’ora di diventare nonna».
La bimba affidata a una nuova famiglia
Ci sono poi vicende che si evolvono seguendo strade imprevedibili. A luglio una donna si è presentata in un ospedale della provincia per abortire, aveva superato il limite delle settimane di gestazione, non ha potuto farlo. Ha portato avanti la gravidanza e la bimba è nata qui nell’ospedale di Cosenza ma la madre ha confermato la volontà di non riconoscerla. «Ho accompagnato questa donna all’uscita – ricorda – . Le ho chiesto di pensarci, di non avere fretta. Tieni il mio numero, le ho detto. Se dovessi ripensarci avrai tutto il sostegno che ti serve. Quella telefonata è arrivata, ma per comunicarmi la volontà di non tornare a riprendersi sua figlia. Alla piccola è stato dato un nome scelto dalle ostetriche, per venti giorni ha vissuto qui in neonatologia, accudita e coccolata da tutti. Poi è stata affidata ad una nuova famiglia».

Le difficoltà non mancano
Sono racconti che fanno brillare gli occhi dietro le mascherine, «spesso si danno dei giudizi sommari sull’aborto, diventa un tema politico, scalda i dibattiti – dice Francesco Cariati – ma bisognerebbe ricordare che dietro ogni storia c’è un dolore da rispettare. Noi qui facciamo il massimo per tutelare le donne e la loro scelta. Certo, le difficoltà non mancano. A partire dalla logistica».
L’aborto è anche un problema di privacy e lingua
Le donne che vengono in ospedale per abortire devono condividere gli spazi con le donne col pancione e con quelle che hanno appena partorito, s’incrociano, si sfiorano. «Siamo molto attenti a garantire la privacy, ad agire con il massimo tatto – aggiunge Cariati – ma il problema c’è, non si può negare. È necessario avere un’ala riservata per le interruzioni di gravidanza. Siamo in attesa che venga realizzata, questo renderà tutto più semplice». Quando? «Non ho informazioni certe sui tempi. Posso dire però che il progetto c’è».
Un altro problema è quello della mediazione linguistica, le donne che non parlano l’italiano precipitano nel vortice di adempimenti burocratici e qualche volta si perdono. «Spesso ho di fronte ragazze sperdute, con le quali ho difficoltà anche solo a spiegare dove devono andare, cosa devono fare, quando devono tornare» dice Cariati. Molte di loro non sono informate sui metodi contraccettivi e capita che tornino anche due o tre volte in un anno. «Ecco, in momenti come questi, in cui rivedo in reparto una donna che ha già avuto più di un aborto volontario, ho qualche difficoltà, la redarguisco. Sono un ginecologo – ripete – il mio compito è dare la vita, questo non lo dimentico mai».
La chiacchierata si è protratta oltre i tempi stabiliti, ma le storie sono tante e tutte raccontano un pezzo di verità sull’aborto. Un’infermiera si avvicina alla porta, sta cercando proprio lui, da lontano gli fa segno con la mano, indica la sala parto. «Devo andare – dice Cariati – c’è un bambino che ha fretta. Lo faccio nascere e torno».