Luglio 1986, Arena Lido di Reggio Calabria. Gli ambientalisti hanno organizzato un concerto contro il nucleare dopo il disastro alla centrale di Chernobyl di aprile. Sul palco i CCCP e i Gang: un evento. Ad aprire la serata c’è una band di esordienti, gli Invece. Sono quattro musicisti poco più che ragazzini – Salvatore Scoleri, Mimmo Napoli, Totò Speranza e Peppe De Luca – vengono dalla Locride e, come loro stessi ammetteranno anni dopo, quel giorno sapevano a malapena accordare gli strumenti.
Il pubblico li guarda perplessi, ma è questione di pochi istanti. Gli Invece hanno energia da vendere, uno sguardo originale sul mondo e cantano in dialetto le loro canzoni punk-reggae. Un mix vincente.
È l’inizio di una ribellione impossibile, di una piccola grande storia di passioni e rabbia, libertà e ingiustizie, dolore e morte vissuta nella Locride degli anni ottanta, terra di rapimenti, faide e tradimenti.
Decidono di chiamarsi Invece per questo. Meglio, contro tutto questo.
Adolescenti a Bovalino
Salvatore, Mimmo e Totò vivono a Bovalino, un piccolo comune che si affaccia sul mare, dove l’aria sembra rarefatta e immobile. È forte l’oppressione della ‘ndrangheta aspromontana, così come il sentimento diffuso che nulla possa mai cambiare. È a questo orizzonte asfissiante che i tre ragazzi non vogliono rassegnarsi. Per questo in paese tutti li considerano gli strani e i disadattati, peggio ancora i drogati solo perché ogni tanto fumano erba. Si spalleggiano a vicenda, soli contro tutti. Diventano inseparabili.
«Totò ed io passavamo intere giornate e lunghissime notti insieme, c’erano anche Mimmo Napoli e Ciccio Sacco, pochi altri», ricorda Salvatore. Il loro rifugio è la camera di Totò, nella casa sopra il negozio di fiori di famiglia. Il balcone si affaccia sulla piazza di Bovalino, «ma per noi che avevamo colorato le pareti con le bombolette spray, che ci avevamo scritto sopra le frasi di De André e Orwell, di Marley e Guevara e che consumavamo i 33 giri di Clash, Sex Pistols e Cure, quella piazza poteva essere a Londra, a Bologna o a Berlino». Avevano praticato «una rottura con l’ombelico del luogo madre».
Così Bovalino li respinge, ma loro non fanno nulla per essere accettati. Totò, il primo punk della Locride, è quello che si fa notare di più. Indossa un giubbotto di pelle su cui ha disegnato una siringa spezzata per dire no all’eroina. Porta i capelli tinti e la cresta, usa borchie e anfibi. Facile immaginare che «tantissimi compaesani ci guardassero come fossimo degli alieni». Così Totò inizia a girare per strada con un binocolo al collo. E ai passanti che indugiavano troppo con occhi giudicanti chiede divertito: «Vuoi il binocolo per guardare meglio?». Altre volte, invece, ha raccontato l’amica Deborah Cartisano, estrae un pettine dal taschino, lo bagna in una pozzanghera e poi se lo passa tra i capelli. Ama stupire.
Arriva la musica
Ma presto le provocazioni non bastano più. Quel gruppetto di adolescenti sensibili e inquieti sente il bisogno di dare voce alla propria rivoluzione e sogna una band. Accade nella primavera del 1986 quando, poco più che 16enni, incontrano Peppe De Luca, che è più grande di loro e s’è laureato a Bologna in Scienze politiche con una tesi sul punk. Tornato a San Luca, trova naturale avvicinarsi agli strani di Bovalino, con cui condivide la rabbia per le ingiustizie e l’amore per la musica. È lui a far scoprire ai ragazzi la potenza del reggae.
Gli Invece nascono così: Salvatore, che strimpella la chitarra e scrive poesie, ne diventa il cantante, Mimmo Napoli si accomoda alla batteria, Totò – che non ha mai imbracciato uno strumento in vita sua – si procura un basso e inizia a suonarlo, mentre Peppe fa da chioccia con la sua chitarra elettrica. In quei giorni, l’amico Ciccio Sacco scatta una foto alla band in una posa improbabile davanti a un muro scrostato da qualche parte tra Bova e Palizzi: diventerà la loro immagine storica. L’avventura può avere inizio. «Eravamo una cosa completamente nuova, eravamo all’avanguardia», rivendica fiero Scoleri. La loro musica viene definita “combat reggae”, le loro canzoni contro la guerra e le ingiustizie fanno presto il giro della Locride su nastri di fortuna.

Il concerto con i CCCP e i Gang a Reggio Calabria potrebbe essere il trampolino giusto. Tuttavia mentre in tutta Italia si afferma la nuova musica indipendente, gli Invece faticano. È sempre tutto più difficile in Calabria. Così i ragazzi si dividono ed emigrano. Mimmo trascorre alcuni mesi all’estero, Salvatore gira l’Europa come artista di strada (una passione mai sopita), Peppe sceglie il quartiere afrocaraibico di Brixton a Londra, Totò prima raggiunge la sorella Teresa in Liguria poi, dopo un periodo in Portogallo, si trasferisce da Peppe a Londra.
Ma anche se sono dei giramondo, gli Invece trovano sempre il tempo di tornare a Bovalino e ogni volta è una buona occasione per scrivere canzoni e suonare. Nel 1988 la band organizza un tour calabrese e nei due anni successivi registra dei nastri promozionali. Ma la fortuna non gira e all’improvviso le cose precipitano: Totò finisce nell’inferno dell’eroina. Cade e si rialza molte volte, anche passando per una comunità. Nel frattempo continua a girovagare tra l’Italia e la Francia, la Spagna e il Portogallo dove, nel 1993, diventa padre di un bambino che si chiama Diego. Totò combatte contro i demoni e trova rifugio in paese, dove si unisce ai tanti giovani che animano il movimento antindrangheta “Pro Bovalino Libera” che si batte contro i sequestri di persona e chiede la liberazione del fotografo Lollò Cartisano.

Totò ci riprova
Dopo quella stagione di impegno, si sente pronto per una nuova sfida e si trasferisce a Roma dove lavora come cuoco e si specializza in una paella in versione calabrese. Le cose vanno talmente bene che decide di investire con alcuni amici romani in un locale nel rione Trastevere, il Punto G. Ma il momento fortunato dura troppo poco. Nessuno sa davvero quali tormenti lo abbiano attraversato, ma per Totò sono mesi difficili. S’innamora di una ragazza che si fa spazio nel mondo della tv evocando messe nere e dicendo di far parte della famigerata setta dei Bambini di Satana. Scoppia uno scandalo e si apre un’inchiesta della magistratura.
Totò, pur estraneo a quel mondo, finisce in carcere per avere difeso la compagna dalle pressioni della polizia, per lui ingiuste, durante un interrogatorio. Crolla, litiga con i soci del locale e all’inizio del 1997 fa ancora una volta ritorno in paese. Questa volta però non ha più voglia di essere considerato un corpo estraneo, dà una mano al negozio di famiglia e lancia lo slogan “Vogliamoci bene a Bovalino”, subito sposato dagli Invece che riprendono a suonare. I primi di marzo la band raccoglie l’affetto di tanti amici esibendosi nel bar dove i ragazzi spesso trascorrono le loro serate. Sarà l’ultimo concerto insieme.
Il passato che ritorna
Perché è vero che Totò è cambiato, ma non è facile chiudere con il passato. Soprattutto se hai accumulato troppi debiti con gli spacciatori. Per alcuni interviene la famiglia, l’ultimo, che risale al 1995, gli è fatale. Quella volta Totò aveva riempito la valigia con 200 grammi di marijuana per portarla agli amici romani – l’erba dell’Aspromonte è conosciuta in tutta Italia. L’aveva presa da un ventenne, diventato il principale pusher di zona, Giancarlo Polifroni. Totò gli deve trecentomila lire, ma il tempo passa e non riesce a pagare. Polifroni non vuole soprassedere – ne andrebbe del suo prestigio.
Nella terra delle vittime di mafia
Totò sparisce nel tardo pomeriggio del 12 marzo 1997, dopo avere bevuto una birra al bar con un amico. Il giorno seguente una telefonata anonima ai carabinieri segnala la presenza di un cadavere sotto un ponte della statale 106. Totò Speranza, 28 anni, è stato ucciso con un colpo alla tempia sinistra, il killer ha poi infierito sparandogli cinque volte alla schiena. Nel 2004 Giancarlo Polifroni viene condannato in contumacia a 17 anni in via definitiva. Sarà arrestato alcuni anni dopo, quando – rivelano le inchieste – è ormai un narcotrafficante capace di rifornire le piazze di spaccio di mezza Europa.

Comu si faci
Il dolore è insopportabile, per il gruppo la tentazione di mollare è forte. A riaccendere la fiamma è la ricercatrice tedesca, Eva Remberger, studiosa della musica dialettale italiana che insiste perché la band non si sciolga e si offre di sostenere le spese del primo disco. Durante quelle ore concitate Salvatore compone di getto una poesia per l’amico ucciso, si intitola Ma comu si faci – come si fa ad ammazzare ancora in Calabria, una terra che somiglia al paradiso – una struggente ballata, la canzone manifesto degli Invece. Tre mesi dopo l’omicidio, è un nuovo inizio: la band diventa il riferimento delle battaglie per i diritti in Calabria, arrivano le recensioni sulle riviste specializzate, i concerti oltre il Pollino, un memorial per Totò Speranza – che sarà organizzato per un ventennio. Anche per ricordare storie e nomi delle vittime di mafia.
Nel 1999 escono due dischi da cui nasce un fortunato tour in Norvegia dove «creammo gli Invece in versione multietnica con musicisti di ogni parte del mondo», ricorda Scoleri. Tra una partenza e un ritorno, va avanti così per anni, poi forse la spinta si esaurisce, forse cambiano le priorità della vita e i concerti si fanno sempre più rari. La storia di Totò però è ormai un simbolo di ingiustizia e ribellione che trova alimento nei racconti delle associazioni antimafia, nelle parole del rapper Kento che al «sogno di Totò Speranza» nel 2016 dedica uno splendido pezzo, nelle testimonianze dei compagni di sempre che, 25 anni dopo quella morte assurda, conservano «nel cuore un ricordo che non sbiadisce». Non può.
«Nascendo in un altro posto avremmo avuto più fortuna», ne è stato convinto Peppe De Luca. D’altra parte, si sa, la Calabria sa essere ostile e crudele. «Ma non avremmo potuto cogliere la quotidianità che si vive qua». E comunque, per dirla oggi con Scoleri, «non saremmo stati gli Invece». Quegli strani ragazzini, felici e disperati, che crescendo si sono battuti, che forse hanno anche commesso degli errori, ma che in fondo hanno solo desiderato essere liberi. Magari anche di cadere e di ricominciare. E che per questo hanno pagato – e pagano – un prezzo enorme e ingiusto. Nessuno mai avrebbe dovuto, nessuno mai dovrebbe.