Francesco è detenuto nel carcere di Cosenza. Il suo fine pena è fissato per ottobre 2022. Ma il dolore che filtra dalle sue lettere è evidentemente molto più grande del debito che sta per finire di scontare con la giustizia. Dice di non avere nessuno al mondo, a parte la madre. Che però è morta lo scorso 8 maggio senza che lui potesse dirle addio. Ha potuto darle un ultimo saluto, sì, ma solo in videochiamata. E solo quando lei era già morta, in una bara, attraverso lo schermo di uno smartphone.
Una storia ordinaria sofferenza
La sua storia, assicura Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha, è «molto più frequente di quanto si possa immaginare». Le due lettere che Francesco le ha scritto dal carcere di Cosenza sono datate 22 aprile e 11 maggio. Ma sono arrivate alla onlus intorno al 20 maggio, per cui «non è stato possibile intervenire in nessuna maniera».
La malattia
Nella prima Francesco manifesta «un disperato bisogno di aiuto». È recluso nel reparto alta sicurezza, benché sia stato condannato per «un reato comune» e gli restino meno di 6 mesi da scontare. Dice di beneficiare di permessi premio da due anni perché la madre è malata: tumore maligno al fegato, le hanno sospeso pure la chemioterapia. A Pasqua il primo no alla richiesta di permesso. «Il magistrato, assieme agli educatori ed alla direttrice, hanno stabilito che i permessi, anche quelli Covid, li danno ogni 45 giorni».
Un focolaio nel carcere
In effetti in quel reparto, nel momento in cui scrive (22 aprile), sarebbero «quasi tutti contagiati», lui compreso. «Mentalmente sono distrutto: mancano gli educatori – scrive Francesco – e mi dicono che non posso richiedere altri permessi. In questa situazione non so più dove sbattere la testa. Necessito disperatamente di un aiuto; non auguro a nessuno di avere la madre morente e trovarsi chiuso dietro 4 mura dove ti vengono negati i tuoi diritti».
Nessuna risposta
Quando scrive la seconda lettera la madre è già morta. Glielo ha comunicato un ispettore di sorveglianza e, il giorno dopo, gli hanno concesso la videochiamata. «Malgrado avessi mandato la richiesta per un permesso premio per starle vicino nell’ultimo periodo della sua vita, mi è stato rigettato». Poi, allegando il certificato di morte, ha presentato la richiesta di permesso di necessità per poter andare al funerale. Non gli è stato concesso dal magistrato di sorveglianza, «che non si è degnato nemmeno di rispondere».
«È tortura»
Lui la chiama tortura. Anzi, dice che «non esiste tortura peggiore». Ora vuole solo che la sua storia sia raccontata fuori dalle mura in cui è recluso perché questo non accada più a nessuno. «Io avevo solo mia madre – scrive – e, ormai, non ho più nessuno né un posto dove andare. Ormai a me hanno tolto la voglia di vivere».
L’incontro con l’attivista
Una madre in fin di vita, fa notare Berardi, è, per qualsiasi persona, un evento tragico, doloroso. Ancor più se la morte arriva dopo una lunga malattia. «Francesco – racconta l’attivista che ha fondato Yairaiha – l’ho incontrato una sola volta, durante una ispezione. Dalla chiacchierata che facemmo emerse l’amore per la madre, il desiderio di poterle stare vicino, la volontà di cambiare vita anche, e soprattutto, per lei».
Rieducazione o vendetta?
Un legame, un pensiero costante, che è rimarcato anche in altre lettere che Francesco scrive all’associazione ormai da qualche anno. «Una figura senz’altro positiva nella sua vita, non una di quelle “frequentazioni con soggetti controindicati” registrate nelle informative di p.s. fino al 2008, piuttosto uno stimolo – osserva ancora Berardi – ad operare quel cambiamento che il carcere si propone quale fine della pena».
La possibilità di rimediare
Il Got (Gruppo di osservazione e trattamento) avrebbe dovuto, secondo l’attivista, «mettere a valore» l’elemento positivo del rapporto con la madre «per permettere a Francesco di recuperare gli sbagli del passato». Magari «anche facendo un piccolo strappo alla regola laddove non ci fossero stati i requisiti; oppure suggerendo di presentare subito la richiesta di permesso di necessità in vece del permesso premio perché Francesco aveva tutto il diritto di beneficiare di un permesso di necessità».
Cosa dice la legge
L’articolo 30 della legge sull’Ordinamento penitenziario recita: «Nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso dal magistrato di sorveglianza il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo. Agli imputati il permesso è concesso dall’autorità giudiziaria competente a disporre il trasferimento in luoghi esterni di cura ai sensi dell’articolo 11. Analoghi permessi possono essere concessi eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità».
La pietà perduta
Nel caso riguardante il carcere di Cosenza però il magistrato di sorveglianza non ha risposto. «Dimenticandosi – conclude amaramente Berardi – del suo ruolo di garante principale della correttezza dell’esecuzione penale che dovrebbe essere sempre ispirata, e guidata, da quei principi di umanità e dignità espressi dall’articolo 27 della nostra Costituzione». Vedere attraverso un anonimo cellulare la madre nella bara «è tortura». Un atto «di una brutalità mostruosa del quale dovremmo vergognarci tutti se avessimo ancora il senso della pietas».