Nel suo celebre romanzo d’esordio, Triste, solitario y final, Osvaldo Soriano narra di uno Stan Laurel (Stanlio) che ingaggia l’altrettanto noto investigatore Philip Marlowe affinché scopra perché nessuno lo faccia più lavorare. Ecco, abusare del già citatissimo titolo di quel libro può aiutare a rendere l’atmosfera in cui si consuma l’epilogo istituzionale del più volte sindaco di Catanzaro Sergio Abramo. Che altra metafora si può d’altronde usare per uno che sembrava intramontabile, che nel suo curriculum inserisce il megaconcerto di Vasco Rossi a Catanzaro, che ha nella gallery del Comune una foto con Patti Smith, che pur non arrivando a un metro e sessanta è stato il centravanti della nazionale italiana dei sindaci?
Per descriverlo non serve molto di più di quanto non abbia detto lui stesso nella lunga parabola iniziata, anche se lo ricordano ormai in pochi, come papabile candidato a sindaco del centrosinistra negli anni ’90. E proseguita come acclamato uomo-del-fare poi incoronato pluricampione del centrodestra.
Il tour «veni trovami» con Riccardo Iacona
Nel suo ultimo messaggio di auguri da primo cittadino, quello di Capodanno, ha richiamato «tanti momenti ed emozioni» vissuti con la fascia tricolore, ma non ha nascosto la speranza di «essere ricordato, tra pregi e difetti, come il sindaco che ha dato un volto nuovo al capoluogo». Certo Catanzaro era molto diversa nel 1997, quando vinse le elezioni per la prima volta con un largo consenso confermato, con il 70%, nel 2001.
Certo oggi neanche lui è lo stesso di quando le impietose telecamere di Riccardo Iacona immortalarono – rendendolo davvero immortale – il suo modo strapaesano di fare campagna elettorale. «Tutt’appast?» e «veni trovami» entrarono nell’immaginario collettivo, come le strette di mano e i baci seriali che dispensava agli elettori per le vie della città. Non serviva aggiungere altro al saluto, alla garanzia della sua presenza proprio nel momento in cui ci si aspettava che fosse presente e a disposizione.
I tormentoni di Sergio Abramo
All’epoca non era solo un politico ma un imprenditore quotato. Con le sue «7-8 società» riusciva a garantire un’occupazione a «circa 2700 lavoratori», tanto da far dire all’autore di Presa Diretta che «Sergio Abramo è un po’ come gli Agnelli a Torino». Lui si schermiva e aggiungeva orgoglioso di non essere iscritto a nessun partito. Eppure negli anni le tessere non gli sono mancate. Così come le frasi-tormentone che gli sono scappate più volte in pubblico.
Agli annali restano espressioni, rivolte a cittadini spesso esasperati per le più svariate e serie ragioni, come «a ‘mmia non mi dissaru nenta» e «ti cercavi voti io?». Così com’è agli atti, anche delle forze dell’ordine, la baruffa scoppiata davanti alla sede della Provincia con uno degli esponenti della sua maggioranza: si rinfacciavano reciprocamente certi giochetti elettorali che fecero perdere al centrodestra, all’esordio della riforma Delrio, la guida dell’ente. Più recente, ma altrettanto gustosa, è la caricatura che Ivan Colacino fa del «sindaca» esasperando la sua dizione piuttosto “aperta”.
Tutt’altra storia rispetto agli ultimi rantoli del consiglio comunale destinato a rinnovarsi nella prossima primavera. Già qualche giorno prima di Natale lui stesso minacciava di «staccare la spina» di fronte a una scena abbastanza decadente: in aula è stata sfiorata la rissa non per questioni importanti per la città, bensì per l’abbigliamento di un assessore contestato da un consigliere.
I primi saranno gli ultimi
Un motivo ci sarà se l’ultimo “Governance Poll” di Noto per Il Sole 24 Ore ha piazzato Sergio Abramo in coda tra i sindaci calabresi con un -14,4% rispetto al 64,4% delle elezioni del 2017. Proprio lui, che è sempre stato tra i sindaci con il più alto gradimento su scala nazionale, già nel 2020 aveva mostrato un calo fermandosi al 51esimo posto. Oggi diventato il 70esimo (su 105).
È evidente che i problemi sono tanti e le emergenze infinite. Si sa che governare non paga e il potere logora anche chi ce l’ha. Ma forse anche lui aveva pensato a un finale diverso – sempre che abbia mai pensato a un finale – quando, da rampollo di una famiglia di artigiani della tipografia, si affacciava alla politica. Maturità scientifica e corsi di management alla Bocconi, nel 1993 era presidente dei giovani industriali calabresi e nel 1996 entrava nella Giunta nazionale di Confindustria. Un anno dopo arrivava la prima elezione a sindaco, dopodiché diventava anche presidente di Anci Calabria.
La maledizione di Palazzo Campanella
Nel 2005 il coronamento della carriera doveva essere la presidenza della Regione, a cui si era candidato con il centrodestra, ma è stato sconfitto da Agazio Loiero, l’unico riuscito a strappare al centrodestra anche il capoluogo con la vittoria (2007) di Rosario Olivo. L’avvento di Peppe Scopelliti alla Regione (2010) gli ha portato in dote un paio di anni da presidente di Sorical. Dopo dei quali (2013) è tornato al posto a cui sembra destinato per diritto divino: sindaco di Catanzaro per la terza volta.
Quella attuale è la quarta. Nel frattempo (2016) ha lasciato l’azienda di famiglia ed è diventato (2018) anche presidente della Provincia. Proprio l’ente intermedio un tempo preso a modello di buona amministrazione è oggi il suo principale cruccio. La Provincia è sull’orlo del default e rischia di non riuscire a pagare nemmeno lo stipendio ai dipendenti: ha un disavanzo – dovuto al peso di alcuni derivati risalenti al 2007 – di 12 milioni all’anno.
Gettonopoli
A Palazzo de Nobili, al netto del sarcasmo sull’intitolazione dell’edificio dopo le diverse inchieste che lo hanno investito, l’aria non è più mite. Il centrodestra è diviso in mille rivoli avvelenati e ci vorrà un intervento romano per individuare il suo successore. Intanto c’è l’onta, benché presunta, del consiglio comunale più indagato d’Italia con i due filoni dell’inchiesta “Gettonopoli” riuniti in un unico troncone processuale che coinvolge 19 consiglieri.
Queste ombre non lo hanno neppure sfiorato, ma pure politicamente di recente per lui non c’è stata neanche una gioia. «Quando vado in Regione – ha assicurato – non si muove nulla senza il parere di Catanzaro». Intanto negli ultimi due anni il centrodestra ha vinto due volte le Regionali, ma né Jole Santelli né Roberto Occhiuto hanno dato soddisfazione alla sua ambizione mai celata di entrare da amministratore anche all’ultimo piano della Cittadella.
Dalla Lega a Toti
È passato, nel giro di pochi mesi, dalle simpatie (ricambiate) per la Lega all’autoconferma in Forza Italia, per approdare subito prima delle Regionali alla creatura centrista di Toti e Brugnaro. Nemmeno il passaggio a “Coraggio Italia” gli ha però giovato: il suo candidato al consiglio regionale, Frank Santacroce, è rimasto fuori perché sorpassato dal vibonese Francesco de Nisi.
Anni di amore-odio col suo grande elettore Mimmo Tallini alla fine non sono serviti al grande salto. Altrettanto altalenanti sono state le sue relazioni con le grandi famiglie imprenditoriali di Catanzaro. Prima, fino al terzo mandato, erano tutti con lui. Poi qualcosa si è rotto, pare a causa di autorizzazioni comunali a supermercati che hanno incrinato certi monopoli. Così parte dell’élite degli affari ha finito per appoggiare alcuni suoi avversari. Puntualmente sconfitti nelle urne.
Il delfino è Polimeni ma sta con Mangialavori
Il suo uomo ombra più vicino, negli anni, è stato il capo ufficio stampa del Comune Sergio Dragone, che però a gennaio del 2019 si è dimesso per ragioni «personali». Era lui il vero pontiere con Tallini. Oggi il delfino più quotato è Marco Polimeni, presidente del consiglio comunale che ambisce ad essere il suo successore. E che intanto, per sicurezza, si è accasato con il senatore/coordinatore forzista Giuseppe Mangialavori.
Tra pochi mesi Sergio Abramo non sarà più sindaco e decadrà automaticamente anche da presidente della Provincia. Un po’ solitario lo è sempre stato, ma ha avuto dietro, intorno e sotto un bel po’ di cortigiani che oggi cercano protezione altrove. Quanto possano rivelarsi tristi e finali i prossimi passaggi della sua lunga avventura politica lo si scoprirà a breve. Si tratta pur sempre di un navigato goleador. A cui però nessuno, dopo vent’anni di gloria, pare voler offrire più neanche uno scampolo di partita nel campo della politica che conta.