Sequestri e vacche sacre, c’è del marcio nell’Arma?

Bruno Bonfà alla ricerca della verità su suo padre Stefano, ucciso nel 1991 dalla ‘ndrangheta. Tante denunce su possibili collusioni tra criminalità e forze dell'ordine, nessuna risposta. La soluzione? «Seguire i soldi»

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Qual è stato il ruolo delle forze dell’ordine nei sequestri di persona avvenuti tra gli anni ’80 e ’90 in provincia di Reggio Calabria? È vero che dei carabinieri collusi con la ‘ndrangheta hanno favorito e sono stati parte attiva nei sequestri? Che uso è stato fatto delle camionette in dotazione all’Arma? È vero che servivano per trasportare i sequestrati ed eludere i posti di blocco delle altre forze dell’ordine? Ma soprattutto, fu proprio perché vide un sequestrato su un mezzo dell’Arma che Stefano Bonfà fu ucciso? Esiste un legame tra i sequestri di persona di ieri e il fenomeno delle vacche sacre di oggi? A questi e ad altri interrogativi, cerca risposta Bruno Bonfà, figlio dell’uomo ucciso il 3 ottobre 1991.

La ricerca della verità

Tanti gli esposti denuncia presentati dall’imprenditore agricolo specializzato nelle colture di bergamotto. Diversi i destinatari: ministri dell’Interno e della Giustizia, prefetti, procuratori capo della Dda, commissari straordinari del Governo, il procuratore nazionale Antimafia, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E per ultimo il primo ministro Mario Draghi.
La richiesta di accertamento di Bruno Bonfà è circostanziata e dettagliata. Chiede di verificare i rapporti tra criminalità, servizi segreti e forze dell’ordine in relazione ai sequestri di persona avvenuti in Aspromonte. Nello specifico, quelli nella vallata de La Verde.
«Mio padre ha pagato con la vita l’aver visto qualcosa che non doveva vedere. Molto probabilmente uno dei sequestrati a bordo di una camionetta dell’Arma. La mia è una battaglia per la verità – spiega – sui tanti morti trucidati solo perché fortuiti testimoni di quei passaggi inconfessabili».

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Il frontespizio dell’ultima denuncia presentata dall’imprenditore Bruno Bonfà
Seguire il denaro per verificare eventuali collusioni

Bonfà sollecita accurati controlli. Vuol capire come all’epoca la ‘ndrangheta disponesse di informazioni riservate, poi usate per evitare di percorrere strade e sentieri controllati dalle forze dell’ordine presenti sul territorio.
Per questo motivo chiede di verificare le dichiarazioni rilasciate da un dirigente di Polizia. che confermavano la collusione di parte dei militari dell’Arma di Bianco. Il dirigente fu improvvisamente trasferito in altra sede e Bonfà vorrebbe accertare anche le vere ragioni di quel trasferimento. Ma per individuare i deviati basterebbe «seguire i soldi».

L’imprenditore, nelle sue denunce, suggerisce un accertamento patrimoniale per tutti i militari in servizio coinvolti nella gestione dei sequestri di persona sul territorio ricadente nella giurisdizione della Compagnia dei Carabinieri di Bianco. In particolare, quelli che operavano «nella vallata La Verde, alle spalle di Africo, nel bosco di Ferruzzano, lungo la fiumara La Verde, direzione Motticella, ai piedi di Samo e nelle relative diramazioni perché crocevia tra San Luca e Motticella».
«Per scoprire se ci sono stati militari deviati basterebbe – afferma l’imprenditore – fare un semplice incrocio dei dati tra mezzi a disposizione dell’Arma. Percorsi svolti, personale in servizio, eventuali posti di blocco e attuali risorse economiche dei Carabinieri in servizio all’epoca per individuare gli eventuali collusi».
Su un punto Bonfà non transige: «Tutti gli accertamenti sulla presenza o meno di forze militari deviate devono essere svolte da forze investigative non calabresi. Troppo alto il rischio insabbiamento».

Sequestri e vacche sacre

Dal 1998 l’azienda agricola Bonfà, produttrice di bergamotto, è oggetto di incursioni delle vacche sacre della ‘ndrangheta che, a più riprese, hanno distrutto il 70% delle 3500 piante esistenti.
Grazie alla legge 44/99 è riuscito ad ottenere un indennizzo per i danneggiamenti avuti.
Circa 200mila euro, elargiti in più tranche. Poca roba rispetto al reale danno subito. Che oggi ammonterebbe a 20 milioni di euro.
Con le risorse ricevute Bonfà ha ripreso le produzioni che contraddistinguono l’azienda in Italia, ma non basta. Anche perché i pascoli delle vacche sacre sono continuati nel tempo, così come i piccoli danneggiamenti e gli incendi.
In un primo momento le forze dell’ordine hanno registrato quanto denunciato dall’imprenditore e ci sono stati anche interventi di abbattimento di alcuni capi di bestiame.
Ma poi, improvvisamente, nulla si è più mosso. Nonostante le decine di foto testimonianza c’è chi ha persino tentato di addebitare i danni presenti all’interno dell’azienda «alla presunta incuria» di Bonfà che l’imprenditore respinge al mittente: «È in corso l’elettrificazione della mia azienda, un servizio di cui godranno tutti gli agricoltori della vallata. Assurdo».

Gli avvistamenti a marzo 2021

Del suo caso si sta occupando la Procura di Reggio Calabria e la X Commissione parlamentare. Ma la sua pratica per ricevere un nuovo indennizzo grazie alla legge 44/99 è ferma.
«A causa – spiega – delle ennesime informative deviate che hanno prodotto le forze dell’ordine e che io ho prontamente denunciato». Silenzi, omissioni e accuse che per l’imprenditore hanno un unico emissario: la ‘ndrangheta. Obiettivo: portare l’azienda al collasso e rilevarla. Ma Bonfà ha la testa dura e ha scelto di continuare la sua battaglia di verità nonostante tutto. «Lo faccio per la memoria di mio padre, non si può far finta di niente. Se tacessi sarei anch’io connivente».

 

 

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