È un gioco strano, in cui sembra che la palla voglia andare dalla parte contraria a quella dove corrono gli uomini. I giocatori si lanciano, carichi di fatica e sudore e lei, la palla – sbagliata perché ovale – passa di mano in mano. Ma resta sempre indietro. Però alla fine giunge dove gli uomini volevano portarla: oltre la linea di meta.
È il rugby, bellezza.
Alcune decine di anni fa da queste parti, tutti gli altri davano calci a un pallone o al più tentavano di centrare un canestro. Ma qualcuno si incantava a guardare gruppi di omaccioni che sembrano azzuffarsi allegramente. E decideva che quello sarebbe stato il suo gioco, per sempre.

Tonino Mazzuca: il pioniere del rugby a Cosenza
L’avventura comincia agli inizi degli anni Settanta, quando il compianto Tonino Mazzuca, che studiava a Perugia (dove il rugby era già di casa) porta la passione per il rugby a Cosenza.
Attorno a lui, lentamente si aggregano ragazzi, richiamati dalla novità, forse anche dalla diversità di questo sport. Per loro anche un modo per andare contro corrente.
Tra i primissimi, Enzo Paolini, avvocato con un passato di militante radicale, vicino a Giacomo Mancini e oggi tra le altre cose anima del Premio Sila. Tutte vite, le sue, attraversate senza levarsi la maglietta sporca del fango di chissà quanti pacchetti di mischia. Già: se sei stato in una partita di rugby a Cosenza come altrove, se correndo in avanti hai passato la palla all’indietro, quel modo di vivere te lo porti dentro in ogni cosa.

Gli esordi al Morrone del rugby cosentino
Appena dopo arrivano gli altri, fino a che si forma una squadra in grado di partecipare ai tornei.
Ma niente è facile in quegli anni: il campo dove ci si allena è il vecchio stadio Morrone, sede del Cosenza nel cuore della città, a via Roma.
I ragazzi della palla ovale sono paria. I calciatori, che gli cedono il campo solo a tarda sera, li guardano con stupore e una certa ironia.
Tutto questo significa partite quasi al buio e docce fredde negli spogliatoi. Ma a vent’anni a queste cose si bada poco. Magari le si ricorda dopo, in una serata alla Club house della squadra di rugby, dedicato allo storico pilone Ciccio Macrì, «amico straordinario, atleta dalla grande forza fisica molto temuto dagli avversari», racconta Massimo Ferraro.
Club house: il luogo della memoria
La Club house è il luogo dell’incontro e della memoria. È un piccolo angolo d’Inghilterra nel cuore del sud Europa, un pub molto british vicino al Marulla. Alle pareti i trofei, le magliette storiche, le foto con le facce da ragazzi di quelli che oggi sorridono in quel luogo, con i capelli e le barbe ingrigite.
L’occasione dell’incontro è una partita di calcio, ma ogni scusa va bene per stare assieme e mantenere il fuoco della passione. Oggi sono professionisti, ma il fango dei campetti e il furore delle mischie non si scordano. Anzi, si celebrano tutti i giorni come un impegno quasi cavalleresco.
Non si vedrà mai un rugbista fare quel che accade normalmente nei campi di calcio, dove i giocatori si rotolano per terra dopo un blando scontro e simulano gravi infortuni, salvo riprendere baldanzosamente la partita poco dopo. È, per dirla senza esagerazioni, una questione d’onore più ancora che di correttezza sportiva.

Uno sport politico
Infatti il rugby ha un’etica che va oltre il gesto atletico: vincere è ovviamente importantissimo, ma di più lo sono il bel gesto, il sacrificio per la squadra, la lealtà.
È una visione quasi “politica” dello sport che va oltre la banalità decoubertiana del “partecipare” ed esalta invece l’essere parte di un gruppo mettendo da parte le tentazioni di protagonismo.
Perché il rugby è uno sport di sacrificio. Passare la palla indietro significa condividere una strategia, aver fiducia nel gruppo, valorizzare i talenti di tutti, partecipare alla fatica e alla vittoria, senza eroi, ma tutti uguali combattenti.
Il rugby a Cosenza nel ricordo di Civas
Nella Club House intanto sul maxischermo prosegue la partita di calcio e dalle cucine arriva Pino Falbo, detto Civas.
Nessun riferimento al whisky: il suo soprannome è quel che resta dello storpiamento del nome di un famoso giocatore straniero particolarmente bravo nella touche, cioè nella rimessa in campo laterale della palla, pratica cui Pino eccelleva.
«Ho iniziato a giocare a rugby perché piaceva a mia madre», dice ridendo Pino Civas mentre ha appena finito di friggere una padella omerica di patate ‘mpacchiuse per il gran numero di commensali. Pino sarà anche stato bravo con la palla ovale, ma in cucina non scherza per niente.

Per amore di mammà
Certo, è difficile immaginare una madre che si appassiona a un gioco così ruvido. Eppure «a lei piacevano le mischie», cioè quel mucchio di uomini tra i cui piedi a un certo punto sgusciava una palla strana e qualcuno la prendeva per cominciare a correre. Insomma Pino Civas Falbo ha cominciato per amore della mamma a «mettere la testa dove altri non avrebbero osato mettere nemmeno i piedi», come disse il rugbista francese Jean-Pierre Rives per descrivere una mischia. E ha proseguito fino all’88, quando ha giocato la sua ultima partita.

Il regalo di don Giacomo al rugby di Cosenza
Intanto sullo schermo la partita prosegue e la rievocazione pure. Anche di chi intanto se n’è andato, come Giovani Guzzo, in memoria del quale ogni anno si gioca un torneo che porta il suo nome.
Quelli raccolti attorno al tavolo imbandito sono stati i pionieri della palla ovale a queste latitudini, hanno vissuto gli inizi al Morrone, la sua demolizione e la fatica di cercare un altro campo. Poi la possibilità di usare il San Vito, concesso da Giacomo Mancini grazie alle richieste di Paolini.
Hanno visto i trionfi e oltre trent’anni dopo la storica promozione del Rugby Rende in serie B, restano i testimoni di un’epopea che ancora prosegue.

Hasta la meta
Intanto la partita di calcio finisce, se fosse stata di rugby avrebbe avuto un terzo tempo, quello della convivialità. Attorno alla palla ovale ogni cosa è differente, anche il tifo, mai aggressivo o violento Lo spiega Bernardino Scarpino, detto Stecca, il quale racconta dei tifosi gallesi che al Flaminio, nel corso di una partita tra Italia e Galles, avvolgono nelle bandiere i bambini delle famiglie italiane per proteggerli dal vento. Un altro mondo, oppure un altro modo di vedere il mondo. Ma se la palla con cui giochi è fuori dalla norma e invece di calciarla in avanti la si deve passare all’indietro, un poco eretici devono essere anche i giocatori. Eretici e forse un poco romantici rivoluzionari, come il mediano di mischia Ernesto Guevara.