Da un porto che non c’è (e che forse non sarà mai realizzato) a uno che c’è (e serve tantissimo) ma è pieno di problemi.
Ci si riferisce al progetto di Paola, vagheggiato dagli anni ’90 e di cui sopravvivono solo le tracce iniziali sul lungomare, e alla struttura di Bagnara Calabra, realizzata a fine anni ’80 e ora in mezzo a due guai, uno più grosso dell’altro: i danni ai moli provocati dal mare e il disastro ambientale, provocato dall’uomo, su cui indaga tuttora la Procura di Reggio.
Questi due porti, quello che non c’è e quello che è pieno di guai, hanno in comune una cosa: l’attenzione propagandistica della giunta regionale uscente che ha annunciato, lo scorso Ferragosto, due maxifinanziamenti, 20 milioni per Paola e 9 per Bagnara. In quest’ultimo caso, si sono spesi in prima persona l’assessore al Turismo Fausto Orsomarso e quello all’Agricoltura e alla pesca Gianluca Gallo.
Tanto impegno è doveroso, perché la pesca è una delle voci principali dell’economia bagnarese e poi perché il porto è utilizzato, d’estate, anche dalle imbarcazioni da diporto.
Ma siamo sicuri che questi 9 milioni, stanziati dall’amministrazione Spirlì su iniziativa dell’assessora alle Infrastrutture Domenica Catalfamo, potranno essere spesi?
Un’estate calda
Molti annunci, tanti applausi (rigorosamente bipartisan) e altrettante polemiche, rivolte alle istituzioni per accelerarne le pratiche. L’estate bagnarese è stata calda non solo per la latitudine. Il dibattito sul porto – danneggiato gravemente dai marosi nell’inverno del 2019 e poi sequestrato dalla Procura di Reggio lo scorso febbraio per un presunto disastro ambientale – è iniziato a giugno. Con le esternazioni di Nino Spirlì che è intervenuto a un incontro istituzionale assieme al sottosegretario alle Infrastrutture Alessandro Morelli. I due, in questa occasione, hanno ribadito il loro interessamento per sbloccare il sequestro e si sono impegnati a fare le doverose pressioni istituzionali.
Il leghista si rivolge alla magistratura
Siccome due leghisti non bastano, buon ultimo è giunto Giacomo Saccomanno, il commissario regionale della Lega, che si è rivolto direttamente alla magistratura il 6 giugno per chiedere il dissequestro. A dire il vero, una risposta è arrivata: l’autorizzazione, concessa dalla sostituta procuratrice Giulia Maria Scavello, all’uso delle banchine sigillate durante l’inverno.
Ma è una risposta parziale, riservata ai soli pescatori, che possono ormeggiare le barche. Ma non possono farci la manutenzione e, soprattutto, devono smaltire i rifiuti del pescato attraverso una ditta specializzata. Poco, ma meglio che niente.
La presenza del disastro ambientale non ha fermato, tuttavia, la propaganda. Infatti l’ultimo atto politico dell’agosto bagnarese è stato una conferenza stampa tenuta il 20 agosto da Catalfamo e da suo cugino, il deputato azzurro Francesco Cannizzaro. Entrambi hanno ribadito il finanziamento milionario.
Già: ma i quattrini sono stanziati per la messa in sicurezza del porto e per il rifacimento della strada di collegamento. Cioè per rimediare i danni provocati dalla natura. Ma per il disastro ambientale chi paga? Soprattutto: chi pulisce?
Il generale inverno
La botta finale l’hanno data i marosi di fine 2019, che hanno devastato in due ondate (il 14 e il 21 dicembre) il molo di sopraflutto – cioè il braccio esterno del porto, diventato da allora in parte inagibile – e distrutto le scogliere di protezione.
Da quel momento in avanti, chi usa quel molo lo fa a suo rischio e pericolo. Anzi, potrebbe non usarlo più: secondo gli addetti ai lavori i danni sono tali che potrebbe bastare un inverno simile a quello pre Covid per finire di distruggere tutto.
Non è un caso, quindi, che il porto di Bagnara sia subito entrato nell’agenda della Regione, sin dai tempi di Jole Santelli, la prima a promettere l’impegno delle istituzioni poco prima delle elezioni 2020 assieme a Cannizzaro, su invito del vicesindaco Mario Romeo, eletto nella lista civica guidata dal dem Gregorio Frosina, ma azzurro anche lui.
La promessa in presenza di Tajani
Subito dopo, la promessa è stata ribadita dai tre in presenza dell’eurodeputato Antonio Tajani. E poi è arrivato il turno della Lega, con l’interessamento di Salvini, giunto nella cittadina tirrenica, proprio a ridosso della pandemia, assieme alla fedelissima Tilde Minasi.
L’interesse propagandistico è innegabile, ma senz’altro il porto è vitale: coi suoi circa 150 posti barca è l’estensione nel mare del quartiere Marinella, il cuore pulsante di un’imponente flotta peschereccia di oltre 100 natanti.
Non solo: grazie ai moli mobili, l’estate vi ormeggiano anche le barche da diporto dei privati e quelle per il trasporto dei turisti che visitano la Costa Viola.
Gli sporcaccioni anonimi
Per una cittadina non grande, poco meno di 10mila abitanti, una struttura così è oro.
Peccato solo che molti utenti non se ne siano resi conto. E, soprattutto, peccato solo che chi doveva vigilare in maniera continuativa non l’abbia fatto. Siamo in Calabria, lo sfasciume pendulo sul mare, come diceva Giustino Fortunato.
Ma in Calabria l’uomo riesce a far peggio della natura. Se ne sono accorti (eccome!) i carabinieri, che hanno messo i sigilli al porto il 14 febbraio, dopo aver trovato di tutto e di più sulle banchine e, soprattutto, nei fondali: pezzi di scafi e relitti interi, vecchi motori abbandonati, fusti di olio per motori o di carburante, pezzi di reti e di lenze. Di tutto e di più.
La terza volta che il porto subisce un sequestro
Lo spettacolo dei fondali, in particolare, è tutt’altro che rassicurante: grazie all’interramento, fisiologico in tutti i porti, si sono ridotti dagli originari quindici metri di profondità agli attuali poco più che sei e c’è da scommettere che la sabbia celi altri “tesori” simili a quelli trovati dagli inquirenti.
È la terza volta che il porto subisce un sequestro. La prima è stata nel 2013, la seconda nel 2018, a causa di rifiuti pericolosi trovati su una banchina interna.
Sono le tappe di un’esistenza intensa e tormentata, da cui si ricavano due dati.
Il primo: il porto è stato utilizzato moltissimo (e vivaddio); il secondo: questo porto è stato molto trascurato o, comunque, non tutelato a dovere.
Una storia tormentata
Ciò che serve, spesso, fa anche gola. E tanto. Il porto di Bagnara non sfugge a questa regola: non ha fatto in tempo a sorgere, a fine anni ’80, ché subito è entrato nel mirino dei “picciotti” catanesi legati a Nitto Santapaola.
Ma questa è storia vecchia, consegnata a cronache, nere e giudiziarie, altrettanto vecchie.
La parte più travagliata delle vicende portuali inizia nel 2011, con la gestione della Compagnia portuale Tommaso Gullì, di Reggio Calabria.
La società reggina resta fino al 2018, quando l’attuale amministrazione comunale rescinde il contratto per una serie di inadempienze non proprio leggere: tra queste, l’omessa pulizia e l’insufficienza dei sistemi di sorveglianza (solo sei telecamere al posto delle undici previste).
Il Comune assume la gestione del porto
Subentra una società, Marina di Porto Rosa di Milazzo, che resiste pochi mesi, perché succedono due fatti inquietanti: un incendio colpisce la residenza estiva dell’amministratore della società siciliana e un ordigno danneggia una barca, sempre della società. Segnali chiarissimi, che costringono il Comune ad assumere la gestione diretta. Un compito non facile, visto che il municipio è oberato dal dissesto finanziario, terminato solo di recente con l’approvazione del bilancio 2020.
Nel 2019 la gestione passa alla cooperativa bagnarese Onda Marina, che resiste tuttora, a dispetto del duplice disastro. Tanto impegno, evidentemente, piace non solo alla giunta di Frosina ma anche alle minoranze consiliari, visto che il Comune ha proposto un appalto di cinque anni e vuole estenderlo a dieci.
Il disastro ambientale ferma la ricostruzione
L’idea di finanziare il porto, come si è visto, non è una trovata dei cosentini Orsomarso e Gallo, che semmai l’hanno capitalizzata a fini propagandistici. È un tormentone iniziato con l’insediamento di Jole Santelli, che si è sviluppato in crescendo: i milioni promessi sono stati dapprima cinque, poi sette e, a partire dall’estate appena trascorsa, sono diventati nove.
Tutto questo, senza tener conto del disastro ambientale, visibile a tutti i cittadini prima ancora che agli inquirenti, i quali hanno fatto il classico atto dovuto.
Il decreto di sequestro, confermato il 21 febbraio dalla gip Vincenza Bellini, è tuttora vigente perché funzionale all’inchiesta, ancora in corso, per disastro ambientale e illecite attività cantieristiche.
Il sindaco Frosina è intervenuto a maggio con un’ordinanza di bonifica, proprio mentre gli inquirenti continuavano gli accertamenti. La pulizia delle banchine e dei fondali dovrebbe essere a carico delle società che hanno avuto a che fare col porto, cioè la Gullì, Marina di Porto Rosa e Onda Marina. Inoltre, le cooperative di pescatori e le associazioni di sub hanno offerto il loro aiuto.
I dubbi restano
Ma i dubbi restano e sono fortissimi: è possibile bonificare senza un piano di caratterizzazione, cioè senza conoscere l’entità reale del disastro e, quindi, poter quantificare i costi degli interventi?
Queste risposte le potranno dare solo gli inquirenti, non appena concluderanno le indagini, al momento a carico di quattordici soggetti.
Ancora: è possibile procedere alla ristrutturazione del porto senza aver fatto prima la bonifica necessaria? Evidentemente no, almeno a rigor di logica.
I due disastri, quello provocato dal mare e quello causato dall’uomo, si incrociano e si ostacolano a vicenda, perché dalla soluzione dell’uno dipende la possibilità di affrontare l’altro.
È il cane che si morde la coda. E rischia di sbranare o rendere inutilizzabili i 9 milioni, che fanno così gola da aver messo d’accordo maggioranza e opposizioni. I fatti raccontano questo. E il finanziamento? Rischia di trasformarsi in un’altra supercazzola propagandistica, che la fine della bella stagione rischia di spazzare via.